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La medicina invisibile: se il corpo femminile resta fuori dai dati di ricerca sui farmaci

Articolo. Noi donne percepiamo il dolore in modo diverso, quindi gli antidolorifici hanno un effetto diverso su di noi. Soffriamo più spesso di malattie croniche, ma si tende a ignorare queste problematiche. Una donna potrebbe scambiare un infarto per stanchezza. Fino al 1993 in Usa si poteva non includere le donne nelle ricerche perché il ciclo mestruale avrebbe potuto falsare i test. Qualcosa però si muove.

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(Illustrazione di Elisa Puglielli)

Se una donna oggi avesse un infarto, potrebbe non riconoscerlo. Anzi, potrebbe scambiare il dolore per stress o stanchezza, prendere un antidolorifico e continuare la propria giornata come di consueto. Nel frattempo, però, il suo cuore soffre molto. È successo a tante donne, da figure più popolari come la vincitrice di 11 Emmy Rosie O’Donnell a migliaia di donne comuni. Il motivo? Per decenni, la medicina ha studiato l’infarto quasi esclusivamente sugli uomini. Questo è solo uno dei tanti esempi di come la medicina di genere non sia una questione di equità, ma di salute e sopravvivenza.

Di che genere di medicina parliamo?

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce la medicina di genere come lo studio dello stato di salute e di malattia di ogni persona e di come esso sia influenzato dalle differenze biologiche, definite dal sesso, e socio-economiche e culturali (che invece sono definite dal genere). Questa espressione è stata usata per la prima volta dalla prima direttrice donna del National Institute of Health (NIH) negli Stati Uniti, la cardiologa Bernardine Healy, nei primi anni ’90. La stessa Healy notò che le donne, soprattutto in ambito cardiologico, ricevevano cure meno tempestive e meno adeguate rispetto agli uomini perché i loro sintomi venivano spesso sottovalutati o non riconosciuti. Quindi, pubblicò sul «The New England Journal of Medicine» un articolo chiamato «The Yentl Syndrome», cioè «La Sindrome di Yentl». Il nome deriva dal film (e prima ancora dal racconto di Isaac Bashevis Singer) «Yentl», con Barbra Streisand, in cui la protagonista è una giovane ebrea che, per poter studiare il Talmud (riservato agli uomini), si traveste da ragazzo. L’idea alla base del paragone di Healy era questa: una donna, per essere curata come un uomo, doveva “mascherarsi” da uomo, cioè manifestare sintomi tipicamente maschili per essere presa sul serio.

Quali sono le differenze che rendono l’approccio di genere fondamentale?

Ci sono differenze rilevanti tra i sessi nella frequenza, nei sintomi, nella gravità di numerose malattie così come nella risposta ai trattamenti terapeutici e nelle reazioni avverse ai farmaci.

Noi donne, per esempio, percepiamo il dolore in modo diverso, quindi gli antidolorifici hanno un effetto diverso su di noi rispetto agli uomini. Soffriamo più spesso di malattie croniche (come la fibromialgia), ma al tempo stesso sembra che alcuni medici ancora tendano a ignorare queste problematiche, ritardando le cure e gli interventi.

Pensate che fino al 1993 i ricercatori non erano tenuti a includere anche le donne nelle ricerche del NIH negli Stati Uniti: a quanto pare, il ciclo mestruale avrebbe potuto falsare i risultati dei test, e c’era il rischio di creare danni a potenziali gravidanze. Sostenevano anche l’idea di una ricerca su un corpo “neutro”, ipotizzando che se un farmaco era sicuro sugli uomini, allora lo sarebbe sicuramente stato anche nelle donne.

Eppure, le patologie cardiovascolari sono vissute, diagnosticate e trattate in maniera diversa, e costituiscono la prima causa di morte nelle donne. Le patologie psichiatriche come disturbi depressivi, d’ansia, alimentari, di stress e bipolari hanno un’incidenza più alta nelle donne tra i 10 e i 54 anni rispetto agli uomini, che invece sono maggiormente soggetti a disturbi dell’attenzione, iperattività e abusi di droghe e alcool nell’età adulta. Nonostante ciò, come evidenzia questo studio pubblicato su The Lancet, una delle riviste scientifiche più importanti al mondo, in 10 anni di ricerche solo il 19% degli studi mirava a distinguere le differenze tra i generi, e solo il 5% ha ritenuto che il sesso fosse la variabile principale d’analisi.

Mondo, Italia, Lombardia e la nostra Bergamo

Secondo l’OMS al momento ci sono 1200 farmaci in fase di sviluppo clinico nel mondo dedicati alle donne: 558 per il tumore al seno (che si prevede colpirà sempre più donne da qui al 2050), 251 per il tumore alle ovaie, 190 per il tumore all’utero, 95 per altre patologie ginecologiche, 83 per tumore alle tube di Falloppio e 22 per condizioni legate a gravidanza e parto.

Sappiamo che noi donne in media viviamo più a lungo degli uomini, almeno in Italia: secondo i dati ISTAT del 2023, la vita media degli uomini è di 81,1 anni e quella delle donne di 85,2 anni. Purtroppo, come riportato dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS), ci ammaliamo di più, consumiamo più farmaci e siamo più esposte alle reazioni avverse dei medicinali, inoltre siamo più soggette a disoccupazione e difficoltà economiche. Un aspetto positivo che ci distingue in Europa è il fatto che con l’approvazione della legge 3/2018 l’Italia è stata il primo Paese nel nostro continente a formalizzare l’inserimento del concetto di “genere” in medicina, proprio per non limitarsi a considerare le differenze biologiche date dal sesso ma anche da tutte quelle condizioni “esterne” che ci colpiscono in modo diverso.

Il Piano sociosanitario integrato lombardo 2019-2023 di Regione Lombardia è la conferma dell’intenzione che c’è di proseguire nel riconoscimento di tutte queste differenze al fine di promuovere eguaglianza e, soprattutto, equità nella salute. Sono due concetti leggermente diversi, infatti l’equità indica la considerazione delle singole peculiarità di ogni persona per evitare qualsiasi stereotipo di genere. Questo è coerente con gli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), che tra gli obiettivi include sia il “raggiungimento dell’uguaglianza di genere e l’emancipazione di donne e ragazze”, sia “assicurare la salute e il benessere per tutti e per tutte le età”.

A Bergamo, inoltre, la Fondazione Onda (Osservatorio nazionale sulla salute della donna e di genere) ha attribuito per il biennio 2024-2025 diversi Bollini Rosa, che riconoscono agli ospedali attenti alla salute femminile e che si distinguono per i servizi che dedicano alla prevenzione, alla diagnosi e alla cura delle patologie che riguardano trasversalmente uomini e donne in ottica di genere. In particolare, l’Ospedale Papa Giovanni XXIII ne ha ricevuti 3 (il punteggio massimo), il Policlinico San Marco di Zingonia e il Policlinico San Pietro di Ponte San Pietro ne hanno ricevuti 2 e l’Humanitas Gavazzeni a Bergamo ne ha ricevuto uno. È un bel vanto per la nostra città, anche considerato che l’Ospedale di Bergamo è il terzo in Italia nella classifica delle strutture pubbliche.

E la tanto “popolare” intelligenza artificiale?

Temo di dovervi deludere: l’intelligenza artificiale potrebbe non essere così intelligente come molti pensano. Tutti gli algoritmi che ci forniscono risposte, immagini e diagnosi sono “addestrati”, quindi apprendono, da dati già esistenti. Questo vuol dire che se i trial clinici, gli studi e le ricerche che vengono pubblicate si basano su popolazioni prettamente maschili, i dati sulle donne scarseggiano e anche i risultati non risultano così accurati. Astrid Serughetti ha da poco pubblicato un interessantissimo articolo in cui spiega in maniera comprensibile e completa questo problema, che vi invito a leggere per capire il reale impatto di chi prende le decisioni in fatto di studi e dati. Proprio i dati, come racconta nel suo libro «Quando i dati discriminano» Donata Columbro (qui in un articolo di Marina Marzulli), possono essere soggetti a bias, pregiudizi e tendenze, e tutte le decisioni data-driven (guidate dai dati) sono tanto distorte quanto lo sono i numeri di partenza.

Dati “invisibili” per persone “invisibili”, come spiega Caroline Criado Perez nel suo omonimo saggio: la «Parte quarta: nello studio del medico» è ricca di riferimenti reali e descrizioni sostenute dai dati di come le donne siano, anche in questo secolo e in diverse parti del mondo, discriminate nell’ambito medico.

Anche il numero di studi tende a scarseggiare: la Sindrome dell’Ovaio Policistico (PCOS) colpisce dal 5 al 10% delle donne fertili, con sintomi già evidenti durante la fase dello sviluppo. Sono circa 3 milioni di donne e ragazze. E sono tante. E tante di loro si sentono dire «smettila di lamentarti che ti fa male il ciclo, sopporta un po’», quando invece si nasconde una patologia complessa e trattabile. In compenso, il tumore alla prostata ha insorgenza più tardiva, ci sono circa 36 mila nuovi casi ogni anno nel mondo, e gli studi dedicati sono molti di più rispetto alla PCOS.

Al tempo stesso, l’Humanitas di Rozzano ha introdotto nei mammografi un software che aiuta a migliorare la qualità e l’efficacia nella diagnosi dei tumori al seno, così come al Bolognini di Seriate hanno adottato una nuova apparecchiatura per eliminare definitivamente le cellule del carcinoma mammario che utilizza un algoritmo specializzato nell’individuazione tramite uno scanner delle cellule malate. Quindi sì, ci stiamo spostando verso una specializzazione della medicina che potrà, nei prossimi anni, fare la differenza.

Cosa possiamo fare?

L’8 marzo, e anche questo progetto di Eppen sulla Parità di genere, è un’occasione per informarsi, al di là delle mimose, dei post su Instagram e dei «dovrebbero festeggiarci tutto l’anno». Ci sono molti enti che promuovono tavole rotonde, conferenze con ospiti internazionali, spettacoli teatrali e ogni tipo di evento rivolto a tutte e a tutti coloro che vogliono scoprire qualcosa di nuovo su questo ambito.

L’Università degli Studi di Milano ha organizzato per il mese di marzo una serie di incontri dedicata alla Giornata Internazionale della Donna, e proprio lunedì 10 si è tenuto «Women’s Health Matters» , evento che coinvolge grandi figure internazionali che hanno presentato il «Women Health Index» , un indicatore dell’impatto delle condizioni ormonali femminili nell’ambito lavorativo, progettato dalle ricercatrici e dai ricercatori del progetto Human Hall dell’Università degli Studi di Milano e il team DE&I di Deloitte.

A Bergamo, invece, dovremo aspettare ancora qualche settimana: il 25 maggio al Centro Congressi Giovanni XXIII verrà messo in scena lo spettacolo «Le Medichesse» , per raccontare il coraggio, la passione e le sfide quotidiane delle donne in medicina.

Se, nel mentre, voleste leggere qualche dato raccontato da uno dei ricercatori italiani più illustri nell’ambito della salute, il Dottor Silvio Garattini (presidente e fondatore dell’Istituto Mario Negri) e una squadra di esperti hanno scritto il libro «Una medicina che penalizza le donne. Le prove di una scomoda verità e alcune proposte di soluzione», in cui ci illuminano di come la nostra sia una medicina “al maschile” e, soprattutto, offrono varie piste di soluzione per questa sfida scientifica e antropologica.

Amiche, siate speranzose. Sembra proprio che siamo sulla strada giusta!

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