Quando sono a Bergamo vivo in una casa di ringhiera, una di quelle case che per ciascun piano ha un unico balcone. Io amo la ringhiera del mio palazzo. La ringhiera non è ovviamente un pezzo di architettura della casa: è un ambiente. Un ferro di cavallo a tre piani dove ogni giorno si svolge la vita comunitaria delle persone. Mia nonna paterna ha passato tutta la felice terza età seduta in ringhiera nel quartiere della Clementina, prima che la casa popolare dove stava fosse demolita e lei trasferita in un piccolo triste appartamento in condominio, dove non stava bene.
La ringhiera è una risorsa incredibile, un lungo d’incontro, di confidenza, di osservazione di come stanno gli altri e come stai tu. Il primo piano del mio palazzo è un piano quasi sempre affittato, dove la gente va e viene. Perciò non ci si affeziona tanto a chi c’è. C’è un clima di discreta, contemporanea e moderata cortesia: «buongiorno», «buonasera» «prego», «si figuri», ma non c’è cuore.
Invece al secondo e al terzo piano ci sono i personaggi storici e lì cambia tutto. Io sto al secondo piano. Premetto che la ringhiera è un luogo di donne, i maschi ci passano, ma contano poco, sono un po’ la serie B. I giochi si fanno tra le donne. La “boss” del mio piano si chiama Lucia (nome fittizio per mantenere la privacy. Che poi, nella casa di ringhiera, la privacy non sappiamo proprio cosa sia!) e ha quasi un’ottantina d’anni, è bergamasca doc, nata sui sette colli. Io la trovo così lucida nella gestione delle cose e nei ragionamenti che le affiderei la direzione di un ospedale. La sua cucina è sempre immacolata, con l’acciaio del lavello così brillante che ti acceca. Lucia è una delle persone che legge di più tra quelle che conosco. Uno dei suoi libri preferiti è «L’amica geniale» di Elena Ferrante. Dice che anche se è ambientato a Napoli e lei è di Bergamo, lì è descritta anche tutta la sua infanzia e giovinezza.
Quando sono via, Lucia mi cura il terrazzo, che al mio ritorno sembra il giardino di Virginia Woolf, e che io poi rovino con la mia presenza sciatta. Oltre che giardiniera, è un po’ Jessica Fletcher, sa tutto quello che succede intorno e nel palazzo. Interpreta i passi e riconosce la natura dei rumori. È la mia guardia del corpo, il mio sistema di sicurezza. I miei amici la conoscono tutti, perché la incontrano sulla ringhiera e io faccio le presentazioni, sintetizzando in quattro parole il loro curriculum vitae. Nella ringhiera abbiamo tutto un rituale di comportamento che deve essere rispettato. Ma non è casuale o pretenzioso, è una tacita pratica di gestione degli spazi che fa sentire tutte al sicuro.
Il marito di Lucia ha invece 89 anni. Io l’ho eletto il mio life-coach, il mio personal trainer. Lui è 89 anni che è nel palazzo, perché ci è nato dentro. Nonostante abbia avuto qualche problema di salute (direi che è normale), fa un’ora di cyclette al giorno e poi esce per la consueta passeggiata sulla ciclabile, che è quella che faccio anche io, seguendo il suo esempio. Non consuma alcol e mangia leggero. Sulle analisi del sangue non c’è mai un asterisco e dimostra quindici anni di meno. Ecco, su questa parte dell’esempio io faccio più fatica a seguirlo.
Sul pianerottolo c’è anche Elsa, una signora ucraina di una dolcezza disarmante che lavora in quartiere come badante. Quando ci incrociamo sulle scale facciamo sempre l’aggiornamento: come stai, cosa fai, lavoro, figlia, nipoti, schiena. Elsa e Lucia si aggiornano sempre anche loro sulla ringhiera. Poi ci sono Filippo, un’insegnante trentenne e Mario, un pensionato, molto carini. Mario tutti giorni porta l’Eco a Lucia. Al terzo piano ci sono altre donne di età diverse. Tra tutte spicca la “boss” del terzo piano che è Maria, di poco più di una settantina d’anni. Maria è il braccio operativo del palazzo. Dal terzo domina tutto e anche in quartiere ha un certo peso. Lei pulisce le scale se c’è bisogno e spesso si occupa dei bidoni della spazzatura. Un giorno le ho detto: «Maria, il palazzo dovrebbe pagarti per quello che fai» e lei mi ha risposto: «Io soldi non ne voglio, ma il tuo grazie lo accetto e mi fa molto piacere».
La ringhiera è un antidoto alla solitudine, è uno spazio d’incontro che ti fa sentire a casa. A volte penso a quanto sarebbe diversa la vita di queste signore e anche la mia se vivessimo in un condominio. Francesco Recami in « Sei storie della casa di ringhiera » descrive la ringhiera come: «un teatro shakespeariano. Su due o tre livelli, con porte e finestre che si aprono (magari quando sarebbe meglio che rimanessero chiuse) e che si chiudono (magari quando sarebbe meglio che rimanessero aperte) è tutto un entrare e un uscire, tipico della drammaturgia teatrale, soprattutto della commedia degli equivoci».
Forse le case di ringhiera mi piacciono perché hanno questo aspetto teatrale, ma più di tutto io credo di amarle perché sono luoghi di comunità di donne. Michela Murgia, a proposito, nel suo libro « Noi siamo tempesta » parlava di amicizia civica, di legami di comunità capaci di inventare nuove soluzioni per risolvere problemi, perché la collaborazione creativa è un superpotere che appartiene a tutte e tutti.
Un superpotere che penso aumenti per le donne nella fase matura della vita, quando si comincia a sentire meno pressante l’aspettativa dei ruoli di genere e in sostanza ci si comincia a sentire più libere, senza costrizioni. La grande iconica femminista statunitense Gloria Steinem, nel suo famoso saggio « Doing Sixty and Seventy » («Diventare sessantenne e settantenne», purtroppo non tradotto in italiano), parla dell’inaspettata liberazione che deriva dall’invecchiamento, che porta le donne ad essere meno accondiscendenti e più assertive e radicali. Quando avviene il passaggio di liberazione dai ruoli di genere, la comunità per le donne torna ad essere centrale nell’economia del quotidiano. Le chiacchere con le amiche in ringhiera, il cappuccino al bar, la spesa, il mercato, le telefonate. Ma anche, per tantissime, la messa, il giro al cimitero, persino i funerali. Sono tutti luoghi che producono relazioni, antidoti contro l’isolamento, direi anche zone di espressione e produzione di pensiero e in una certa forma di radicalità.
La microsocialità fatta dalle donne mature fa esattamente quello che le scienziate sociali femministe internazionali più prestigiose come Donna Haraway, Karen Barad, Vivien Bozalek teorizzano come « Make the other florish »: fare in modo che la vita intorno a noi fiorisca.
A questo grande tema è connesso il concetto di cura, anch’esso è fortemente rivoluzionario. Joan Tronto , la più grande studiosa al mondo dell’etica della cura, definisce la cura come tutto quello che nel quotidiano facciamo per mantenere, continuare e riparare il nostro mondo, in modo che possiamo viverci nel miglior modo possibile. Un mondo che include i nostri corpi, noi stesse e il nostro ambiente in una rete complessa che sostiene la vita. Ci vuole lavoro, impegno e collaborazione per rendere la vita accogliente ed inclusiva per tutte e tutti. È quindi interessante allenare lo sguardo per vedere, chi nella vita di tutti i giorni compie questo lavoro prezioso e vitale.
Impariamo a guardare come le donne mature muovono, nel quotidiano, i fili della socialità, cercando di costruire e mantenere il tessuto sociale che rende tutti meno soli. Impariamo a vedere il loro, il nostro contributo, a condividere e ascoltare le loro e le nostre storie. Perché il più grosso antidoto contro l’invecchiamento di donne e di uomini non è la skin care, ma sempre e ancora la comunità.
Per la Giornata internazionale dei diritti delle donne, Eppen, in collaborazione con Bergamo TV e L’Eco di Bergamo, sta lavorando alla creazione di uno spettacolo teatrale che intreccia le fiabe di Cappuccetto Rosso e di Biancaneve con i racconti delle donne delle case di riposo della nostra provincia. Un interessante lavoro di raccolta e restituzione di testimonianze a cura di Silvia Barbieri e della redazione di Eppen, che riallaccia i fili delle storie delle donne, tessendole in un racconto corale e poetico.
Concludo con una citazione della già menzionata, ora ottantanovenne, Gloria Steinem: «Alla mia età, in quest’epoca ancora gerarchica, le persone spesso mi chiedono se sto “passando il testimone”. Spiego che: tengo la mia torcia, grazie mille, e la sto usando per accendere le torce degli altri».