È una relazione di cui si parla poco spesso, quella tra guerra e clima, che per altro vale in entrambi i sensi. Lo sostiene a gran voce Elisa Palazzi, climatologa, divulgatrice scientifica e docente in Fisica del clima presso l’Università di Torino. Il 2 ottobre sarà presente a «Molte fedi sotto lo stesso cielo» con un intervento dal titolo «La guerra cambia il clima, il clima cambia la guerra», che esplorerà alcune tra le molte sfaccettature di questa relazione.
«La mia prospettiva è quella di una climatologa» ci tiene a precisare Palazzi, che dalla sua porta l’esperienza in attività europee e internazionali come la European Climate Research Alliance (ECRA), la Mountain Research Initiative (MRI) e il Global Network for Observations and Information in Mountain Environments (GEO-Gnome).
«Sebbene ci siano altri modi di affrontare la questione, come per esempio dal punto di vista geopolitico, io cercherò di analizzare, da un lato, come la guerra cambia il clima e, dall’altro, come il clima cambia la guerra, cercando anche di individuare la matrice comune tra i due» continua. La sua esperienza di divulgatrice (il libro più recente, di cui è co-autrice insieme a Federico Taddia, si chiama «Bello mondo. Clima, attivismo e futuri possibili: un libro per capire quello che gli altri non vogliono capire» ) traspare da come spiega in modo chiaro e diretto un argomento che, per essere affrontato a dovere, richiederebbe ore e ore di approfondimenti.
La risposta alla prima domanda (come la guerra cambia il clima), parte da un aspetto forse tra i più intuitivi: le emissioni di gas serra causate dalle attività belliche. «Si ritiene che la guerra sia responsabile tra l’1 e il 5% delle emissioni di gas climalteranti a livello globale. Si tratta di una cifra incerta e molto probabilmente sottostimata perché, fin dal protocollo di Kyoto del 1997 scaturito dalla COP3, il settore bellico è sempre stato escluso dagli obblighi di contabilizzazione e rendicontazione che riguardano gli altri settori, come l’agricoltura o i trasporti». Dichiarare le emissioni è, dunque, per questo settore, discrezionale: «le stime scaturiscono da calcoli fatti sulla base delle cifre comunicate dai Paesi che hanno scelto di rendere pubblico questo tipo di comunicazione. Per esempio, è stato valutato che se il comparto bellico statunitense fosse uno Stato sarebbe il 47° per volume di emissioni».
Ma di che tipo di emissioni stiamo parlando? «Le emissioni del settore bellico ci sono sia in tempo di pace che di guerra: basti pensare alla manutenzione delle basi, ai mezzi di trasporto e alle forniture in tempo di pace oltre a, in tempo di guerra, le armi incendiarie, i bombardamenti, la distruzione di aree forestali. Sono da contare perfino le missioni umanitarie che, pur essendo necessarie per salvare vite, producono anch’esse emissioni».
L’impatto della guerra sulle emissioni non è solo diretto: ne esiste anche uno più subdolo, che esacerba la situazione esistente e non consente un miglioramento. Spiega Palazzi: «quando a livello internazionale si intraprendono percorsi di decarbonizzazione per contenere l’aumento della temperatura globale, un contesto di guerra li rende stagnanti, se non del tutto inattivi. Il contesto bellico è l’esatto opposto del clima di accordo che ci deve essere per favorire il raggiungimento di un obiettivo comune. La guerra rallenta i percorsi di sostenibilità e transizione ecologica altrimenti intrapresi».
La relazione tra guerra e clima funziona anche all’inverso. Per capire, però, se il clima possa essere considerato causa di un conflitto, bisogna fare delle precisazioni. Secondo Palazzi, «è difficile e forse sbagliato considerarlo una causa diretta, perché un conflitto è composto da una serie di fattori che si sommano. Quello che si può dire, però, e che anzi è fatto noto, è che il clima è un moltiplicatore di instabilità. Basti pensare al ruolo che possono avere l’insicurezza alimentare e idrica o la siccità, come è successo per la guerra in Siria».
Guerra e cambiamento climatico non solo si influenzano a vicenda, ma condividono anche una matrice comune, sulla quale è possibile agire. Si tratta del «bisogno di accaparrarsi risorse e in particolare combustibili fossili. Se si evitasse di estrarli e di usarli per produrre energia si farebbe del bene in entrambe le direzioni. A questo proposito mi piace sempre citare uno slogan usato dai ragazzi dei Fridays for future: “la guerra è fossile, la pace è rinnovabile”».
Palazzi è, a proposito, una delle voci più ascoltate dagli attivisti di Fridays for future: «quando mi hanno contattato la prima volta io ho risposto molto positivamente, perché secondo me stavano facendo qualcosa di giusto. Hanno l’atteggiamento di chi non vuole farsi trovare impreparato, avanzano richieste che vogliono siano supportate da evidenze scientifiche. A Torino sono stati i primi a chiedere all’università di organizzare cicli di conferenze sul cambiamento climatico. Sono d’accordo con loro nel sostenere che bisogna farsi sentire, a volte anche urlare, perché abbiamo davanti a noi tanti sordi».
Palazzi si definisce anche un’«attivista» perché, nelle sue parole, «chiunque faccia qualcosa nella giusta direzione è un’attivista, anche insegnare in università, fare ricerca e divulgazione. Non è solo manifestazione in piazza. Io, personalmente, vorrei potermi considerare un’antenata di chi verrà dopo di me, un’antenata che ha fatto cose buone e non è stata con le mani in mano».
«Fare qualcosa di buono» può concretizzarsi in molte forme, senza che «nessuno debba sobbarcarsi il peso di tutte le battaglie». Secondo Palazzi, dai ragazzi di Fridays for future dobbiamo trarre un insegnamento: «siamo in tanti e la forza di essere in tanti è che ognuno può spendersi laddove riesce meglio. Ma tutti quanti abbiamo la responsabilità sociale di prendere una posizione».
Su chi fa ricerca scientifica ci sono delle responsabilità aggiuntive: da un lato rendere i risultati della ricerca accessibili a tutti, per creare consapevolezza, e dall’altro non rinunciare a «dire le cose con rigore». Questo non significa essere fatalisti, ma saper creare un equilibrio, «accompagnando questi temi a prospettive positive che invoglino tutti all’azione, anche chi non si sente coinvolto».
Palazzi ripone molta fiducia nelle generazioni più giovani. La sua esperienza di divulgatrice e di autrice di libri per ragazzi l’ha portata in contatto con molti di loro, convincendola che la loro grande forza è «la capacità di immaginarsi un futuro più bello, conservando allo stesso tempo uno spirito concreto: sono pragmatici, scrivono lettere ai politici, studiano e si informano su come fare per costruire il futuro che si sono immaginati».
D’altro canto, però, è evidente che «ci sono anche quelli che non stanno bene, che vivono sulla loro pelle una sorta di ecoansia: questi ragazzi portano sulle loro spalle il peso del cambiamento climatico e si sentono schiacciati. C’è anche chi non si lascia toccare da questi temi e la mia frustrazione più grande è non riuscire ad arrivare anche a loro, non poter bucare la loro bolla».
Nella descrizione del suo ultimo libro, si legge un estratto che fa riflettere:
«Stare dalla parte di Bello Mondo significa fare qualcosa.
Non solo sapere di doverlo fare, ma capire perché.
Non solo sapere cosa fare, ma capire quando.
Non solo sapere intervenire, ma capire come.
Significa fare qualcosa ora»
Secondo Palazzi, «ci sono tante cose che possiamo fare come singoli e noi tutti abbiamo gli strumenti per farle. La cosa più potente che possiamo fare è però smettere di sentirci dei singoli: siamo una comunità, che può mettersi insieme per fare richieste informate e fondate sui fatti. Facciamoci sentire, chiediamo a chi ha preso impegni di rispettarli, anche facendo la voce grossa. Quello che ci serve è un impegno transgenerazionale in cui tutti, nessuno escluso, si sentano coinvolti».
Sabato 7 ottobre alle 11, Elisa Palazzi sarà ospite anche di « BergamoScienza », con un intervento dal titolo «Storie di resilienza».