Non siamo nemmeno a metà estate ma i dati già parlano chiaro: ci aspettano temperature ben sopra la media e forti temporali. Tutto gioca contro la nostra disponibilità idrica, visto quanto facciamo fatica a trattenere l’acqua meteorica: secondo una stima di ANBI e Coldiretti «sull’Italia cadono annualmente circa 300 miliardi di metri cubi di pioggia, ma ne tratteniamo solo l’11%».
A questa funzione sono addetti gli invasi artificiali, che in Italia si presentano in due tipologie: grandi dighe, di competenza statale, e piccoli invasi, di competenza regionale. Le prime sono 532, con un totale di 11.800 milioni di metri cubi invasabili. La regione che ne ha di più è la Lombardia, con 77 grandi dighe, di cui però ben 69 sono utilizzate per produrre energia idroelettrica. Per quanto riguarda i piccoli invasi, invece, non esiste un censimento preciso: i dati più aggiornati parlano di 26.288 invasi, di cui 600 circa in Lombardia. Sapere esattamente quanti sono sarebbe importante per capire quanta acqua può essere immagazzinata, ma anche per determinare il rischio ambientale, strutturale e potenziale che queste strutture comportano.
Di capire quanti sbarramenti fluviali esistano non solo in Italia ma anche in Europa se ne è occupato, insieme a un team allargato di esperti, Andrea Castelletti, docente di Analisi e gestione dei sistemi ambientali presso il Politecnico di Milano, nella cornice del progetto AMBER (Adaptive Management of Barriers in European Rivers). Il progetto, come spiegato sul sito, «si propone di affrontare la sfida della frammentazione fluviale attraverso un processo di gestione adattativa. Si tratta di trovare un equilibrio ottimale tra i benefici e gli impatti delle barriere sull’habitat fluviale per migliorare il futuro ripristino dell’ecosistema, ottenendo la gestione più efficace dal punto di vista dei costi nel breve termine».
La portata del progetto è enorme. Spiega Castelletti: «AMBER ha costruito il primo atlante continentale delle infrastrutture che interrompono la connettività fluviale. Abbiamo catalogato la posizione di tutti questi sbarramenti, dai più piccoli ai più grandi, con l’idea di promuovere azioni volte a rimuoverne alcuni. All’interno del progetto abbiamo poi sviluppato modelli matematici che permettessero di creare una sorta di realtà virtuale su cui poter simulare interventi e studiare l’impatto della costruzione di dighe».
Le conseguenze degli sbarramenti fluviali
Nuove dighe oggi sono in costruzione per lo più solo in Africa, nel sud-est asiatico e in Sud America. Per decidere se procedere o meno è necessario, secondo Castelletti, «valutare non solo l’analisi economica dell’investimento ma soprattutto le esternalità che una grossa diga può produrre e se ci sono modi per compensare».
Una diga, infatti, ha alcuni potenziali positivi. Innanzitutto «produce energia idroelettrica, rinnovabile e a basse emissioni di gas serra. “Basse” e non “zero” perché, sebbene alle nostre latitudini una grande diga non emetta nulla, in contesti tropicali e subtropicali molti studi hanno notato forti rilasci di gas serra e in particolar modo metano e anidride carbonica». Inoltre, per tornare agli impatti positivi «le dighe forniscono acqua per l’agricoltura e per l’uso domestico e industriale». Infine, sono una forte «leva di crescita» per via del fatto che permettono di produrre energia alternativa a quella proveniente da fonti fossili. Tuttavia, come spiega Castelletti, «ci si è resi conto con il tempo che anche i più remoti fiumi alpini hanno un ruolo fondamentale negli equilibri ecosistemici. Per esempio, l’aver trasportato a valle sedimenti e detriti può fare la differenza durante una piena. Perfino l’impollinazione è legata alla continuità fluviale».
Infatti gli ecosistemi fluviali, per mantenere un certo livello di stabilità interna, hanno bisogno di elevata diversità biologica e ambientale, condizionata proprio dalla continuità fluviale. Le comunità acquatiche e il metabolismo fluviale sono influenzate non solo dalle condizioni locali, ma anche da ciò che avviene a monte del corso d’acqua. Numerosi organismi dipendono direttamente dalla continuità fluviale per diversi processi vitali, quali la riproduzione e l’alimentazione. Uno sbarramento ha conseguenze dirette sulla salute degli ecosistemi: ostacola le rotte migratorie dei pesci, ne riduce le popolazioni, determina peggioramenti nella qualità dell’acqua e delle falde sotterranee e causa l’erosione di canali e coste.
Da parte dell’Unione Europea, alla luce di queste considerazioni, si sta facendo largo «una politica di free-flowing, ovvero l’obiettivo di spingersi man mano a rinaturalizzare i corsi fluviali e rimuovere il più possibile gli sbarramenti». Si tratta di uno degli elementi chiave della strategia dell’Unione Europea sulla biodiversità per il 2030: assicurare uno stato di flusso libero per almeno 25mila chilometri di fiumi al fine di ripristinare le rotte migratorie dei pesci, tutelare la biodiversità e la resilienza climatica. Secondo gli ultimi dati, nel 2022 è stato registrato un numero record di 325 rimozioni di dighe in 16 Paesi europei. Si tratta di un aumento del 36% rispetto a quelle segnalate nel 2021.
Se in Europa la sensibilità riguardo a questi temi è crescente, in altre zone del mondo ci sono situazioni diverse. Riporta Castelletti: «in Africa e Cina stiamo affrontando tutta una serie di problemi. Primo fra tutti, il dislocamento delle popolazioni. Grossi dighe su grossi sistemi fluviali in Africa comportano dislocamenti importanti (uno su tutti, la diga delle Tre Gole), con costi fisici e sociali non indifferenti».
Ma non è finita qui. C’è da considerare anche «la questione delle emissioni di gas serra: nelle dighe ad alto contenuto organico si attivano processi che portano al rilascio dal fondo di metano e spesso anche di CO2». Infine «il processo con cui le dighe vengono progettate è spesso inefficiente dal punto di vista economico: il potere politico dà sfoggio di sé con grosse infrastrutture di questo tipo, ma la realtà è che di tutti gli investimenti in corso ora in Africa per nuove dighe tra il 40 e il 60% siano inutili dal punto di vista economico. Questo perché le rinnovabili costeranno sempre meno, il solare soprattutto, mentre l’idroelettrico ha grossi costi di investimento iniziale».
Questo, però, non frena la costruzione di nuove dighe, nemmeno in Europa. «Sulle Alpi svizzere si è iniziato a considerare che con lo scioglimento dei ghiacciai ci sarà maggiore afflusso idrico verso la metà del secolo. Per questo motivo sono in fase di lavorazione progetti – molto criticati – di ampliamento di dighe esistenti o di costruzione di nuove dighe dove ci sono ghiacciai in esaurimento».
L’esigenza di accumulare acqua
Iniziative di questo tipo evidenziano quella che è un’esigenza innegabile che ci caratterizzerà sempre di più: «abbiamo necessità di accumulare acqua in qualche modo, perché il regime climatico sta cambiando e cade tanta acqua in poco tempo che facciamo fatica a invasare». Castelletti cita due progetti in corso che stanno indagando questo genere di necessità: il «progetto laghetti» di ANBI e Coldiretti «per costruire piccoli invasi in pianura per catturare le acque piovane» e uno studio del JRC di Ispra su mandato della Comunità europea per studiare un possibile approccio all’incremento esponenziale di richieste di licenze per la costruzione di nuovi invasi.
In Africa invece sono innumerevoli «i trade off tra fattore economico, popolazione locale e questioni ambientali. C’è una forte pressione demografica, quindi una domanda di energia in costante aumento, tanto che in molti Paesi l’idroelettrico è considerato al pari del petrolio. Tuttavia, i sedimenti trasportati da molti fiumi africani sono alla base della cosiddetta agricoltura di recessione, da cui dipendono molte popolazioni locali. La costruzione di sbarramenti tende ad abbattere i picchi di piena, mettendo a rischio questo tipo di agricoltura, con conseguenze a catena sulle relazioni sociali, l’approvvigionamento di cibo e l’equilibrio ecosistemico».
Le possibili soluzioni
Per uscire da questi intoppi, secondo Castelletti, «il compromesso è la parola chiave. Per esempio, in Svizzera ci sono stati molti investimenti nei sistemi “pumped storage”, che assorbono l’energia rinnovabile in eccesso e la utilizzano per pompare l’acqua in alto e poi farla scendere per produrre energia. Oppure, si ricorre a stabilire un deflusso minimo vitale che mantenga un minimo di naturalità, calcolato in percentuale sull’afflusso disponibile. Oppure ancora, ci sono studi che considerano l’ambiente al pari di uno degli altri fruitori della risorsa idrica, come l’idroelettrico e l’agricoltura, tenendolo in considerazione nelle operazioni di regolazione del deflusso. Oppure ancora, molte nuove dighe sono equipaggiate con meccanismi di “sediment flushing”, cioè di scarico di sedimenti dal fondo».
Altre soluzioni consistono nel virare sul fotovoltaico in sostituzione (anche solo in parte) dell’idroelettrico – anche con configurazioni sperimentali, come quella del solare galleggiante. Si tratta della «possibilità di usare dighe esistenti per installare pannelli solari galleggianti, sfruttando la stessa infrastruttura di trasporto dell’energia e evitando la costruzione di nuove dighe. L’unica criticità e che ancora non si conosce fino in fondo l’impatto sull’ecosistema acquatico».
Quale può essere quindi la direzione futura? Secondo Castelletti, «considerare la diga come un elemento di un più ampio sistema di produzione energetica, di fornitura di acqua e di supporto alla produzione di cibo. Le dighe sono un simbolo e un elemento centrale del nesso acqua-cibo-energia e richiedono un notevole sforzo di compromesso e una progettazione sistemica che tenga conto di tutti questi fattori».