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Dalla democrazia alla “democratura”: Marco Tarquinio spiega la deriva autoritaria in Europa e nel mondo

Articolo. Nel maggio 2024 i Giudici della Corte Superiore Amministrativa pronunciano un verdetto: il più grande partito di estrema destra tedesco, viene definito una formazione che «persegue degli obiettivi contrari alla democrazia». Eppure meno di un mese dopo, questo partito ha raccolto il 16% dei consensi tedeschi alle elezioni europee del 6-9 giugno. Cosa sta accadendo alla democrazia? Lo abbiamo chiesto a Marco Tarquinio

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Colonia, 13 maggio 2024. Dopo una lunga seduta in Camera di Consiglio, i Giudici della Corte Superiore Amministrativa rientrano nell’aula più grande del tribunale cittadino per pronunciare il loro verdetto.

Seduti ai banchi dell’accusa ci sono gli avvocati della Bundesamt für Verfassungsschutz , l’Ufficio Federale per la Protezione della Costituzione; su quelli della difesa Roman Reusch e Peter Boehringer - i due leader dell’Alternativa per la Germania (Alternative für Deutschland, AfD) - e il loro avvocato. La sentenza è inequivocabile: l’AfD, il più grande partito di estrema destra tedesco, viene definito una formazione che «persegue degli obiettivi contrari alla democrazia» . Parole pesantissime per un gruppo che, negli ultimi anni, è stato costantemente soggetto a scandali e durissime critiche, in gran parte dovute ai suoi ammiccamenti al Terzo Reich e al partito nazista di Adolf Hitler. Meno di un mese dopo, l’AfD ha raccolto il 16% dei consensi tedeschi alle elezioni europee del 6-9 giugno: l’estrema destra, fresca delle accuse di autoritarismo, è arrivata seconda al voto, dopo l’Unione Cristiano-Democratica (che ha ottenuto il 30% delle preferenze) e davanti al Partito Social-Democratico del Cancelliere Olaf Scholz, che si è fermato al 14%. In tutta Europa, dalla Francia alla Polonia, dall’Italia alla Spagna, gli estremisti anti-democratici e autoritari hanno raccolto dei consensi senza precedenti.

Una domanda sorge dunque spontanea: possibile che ai cittadini europei la democrazia non interessi più? Ne abbiamo parlato con Marco Tarquinio, direttore di «Avvenire» dal 2009 al 2023 ed Europarlamentare indipendente di sinistra nel gruppo dei Socialisti e Democratici. Con la conferenza «C’è ancora democrazia? Focus Europa», Tarquinio sarà ospite di «Molte Fedi Sotto lo Stesso Cielo» venerdì 15 novembre.

La democrazia arranca in tutto il mondo

Le elezioni europee sono state un duro campanello d’allarme, questo è certo. Ma sono ormai diversi anni che i numeri parlano di una generalizzata disaffezione nei confronti della democrazia che non riguarda solo la Germania, la Francia, l’Italia o l’Europa, ma tutto il mondo. Il più autorevole studio sul tema, aggiornato ogni anno dalla Intelligence Unit dell’Economist (EIU), dice che la democrazia è ormai in fase calante: il Democracy Index del 2023, per esempio, riporta che solo l’8% della popolazione mondiale vive in una “democrazia piena”, mentre il 40% conduce la propria esistenza sotto un regime autoritario.

In media, il “punteggio” democratico globale è di 5,23 punti su 10, in calo rispetto ai 5,29 del 2022. Ciò significa che il mondo, in media, è sempre meno democratico: secondo il sistema dell’EIU, infatti, un Paese può definirsi una “democrazia” solo se totalizza sei o più punti su 10. Per essere una democrazia “piena”, invece, occorrono ben otto punti su dieci. Con una media di 5,29 punti su 10, il nostro pianeta si trova mediamente in una sorta di limbo tra democrazia e autocrazia, definito “regime ibrido” dall’Economist o “democratura” da altri esperti internazionali.

«Le “democrature” si trovano frequentemente in parti del mondo diverse dall’Europa. Molte sono in Asia e in Africa, dove il processo di transizione democratica non è ancora finito. Altre si trovano in Sudamerica, dove negli ultimi anni dei leader di estrema destra hanno trasformato i loro Paesi, prima perfettamente democratici, in nazioni almeno parzialmente autoritarie», spiega Tarquinio, che continua: «Al di fuori dell’Europa e dell’Occidente, c’è una vera e propria assenza di democrazia. Facciamo degli esempi concreti, prendiamo due Paesi sudamericani di cui si parla troppo poco: il Salvador, che dal 2019 è guidato da Nayib Bukele, e l’Ecuador, che dal 2023 è governato da Daniel Noboa. Bukele e Noboa, entrambi di destra, hanno sfruttato lo stato di crisi sociale in cui era sprofondata la propria nazione per sospendere le libertà fondamentali dei cittadini e dichiarare una guerra alla criminalità organizzata, che ha infine fatto vacillare le istituzioni democratiche stesse, già fragili per via della loro giovane età. I sistemi sudamericani vengono studiati dai Capi di Stato di tutto il mondo, che li prendono come modello per le loro politiche: El Salvador e l’Ecuador sono due casi di leader democraticamente eletti che si sono “blindati” nella loro posizione e che hanno trasformato i loro Paesi da democrazie a “democrature”»

Anche in Europa la democrazia arranca, però. «In Occidente le cose vanno diversamente rispetto ai Paesi post-coloniali di Africa, Asia e Sudamerica, ma permane una tendenza generale verso l’autoritarismo. Nel Vecchio Mondo, sono tante le concause che spiegano l’arretramento dei processi democratici. Una delle principali, a mio avviso, è la crescita della sfiducia da parte delle persone nei processi democratici, come le elezioni e la dialettica tra partiti. Questa sfiducia viene alimentata dalla narrativa dei media, che negli ultimi anni si è fatta sempre più polarizzante. Poi ci sono i reali problemi dei grandi partiti tradizionali, che hanno perso la propria bussola valoriale e hanno aderito a sistemi vicini a un pensiero dominante diventato così preponderante da potersi quasi definire “unico”. Questo pensiero è incentrato - in modo giustissimo, ci mancherebbe - sui diritti delle persone, ma dimentica di sottolineare i loro doveri, specie quelli sociali e relazionali. Tutto ciò svilisce il tessuto sociale e aumenta il risentimento popolare: non a caso, uno dei primi problemi della democrazia occidentale è la ridotta partecipazione al voto. Siamo ormai entrati in una fase in cui a votare ci va solo una ridotta minoranza dei cittadini: dalle elezioni in cui pochi si recano alle urne, però, emergono sempre più spesso delle leadership politiche malintenzionate. Queste figure prendono in ostaggio la sfiducia nei confronti del sistema e lo scontento sociale, per poi usarli come arma contro le istituzioni democratiche».

Le Europee del 6-9 giugno: un punto di non-ritorno?

In Europa, a evidenziare le falle di un’impalcatura democratica scricchiolante - sia a livello comunitario che nei singoli Stati membri - sono state le elezioni del Parlamento Europeo del 6-9 giugno. I dati che emergono dal voto sono incontrovertibili: alle urne si è recato solo un cittadino europeo su due (il 50,74%, per l’esattezza). Un dato in leggerissimo aumento rispetto al 50,66% del 2019, ma sul quale pesa l’enorme differenza tra i Paesi della cosiddetta Mitteleuropa e quelli del Mediterraneo: in Belgio ha votato l’89% dei cittadini, in Lussemburgo l’82%, in Germania il 65%; dalla parte opposta, l’affluenza di Italia, Grecia, Spagna e Portogallo è stata rispettivamente pari al 48%, al 41%, al 46% e al 36%. Come se non bastasse, mentre al Nord la percentuale di votanti aumenta (o ristagna), al Sud essa subisce un vero e proprio tracollo: il calo dell’affluenza è compreso tra il 5% e il 10% rispetto a quattro anni fa in tutti e quattro i Paesi del Sud Europa. Secondo Tarquinio, la colpa della disaffezione degli Stati del Mediterraneo nei confronti dell’Unione Europea è da ricercarsi nella retorica dello scontro tra “formiche” e “cicale”: «Questa idea si basa sul presupposto che vi sia un conflitto tra i Paesi settentrionali più parsimoniosi - le “formiche” - e quelli meridionali più spendaccioni - le “cicale”. Molti, nelle istituzioni comunitarie, credono che gli Stati rigoristi debbano mettere in riga gli altri, ma in realtà ormai è ben noto che le differenze di approccio all’economia nazionale e al debito possono risolversi anche con processi di crescita condivisa. Sicuramente, strangolare alcune società con misure troppo rigide non fa bene né all’Europa né alla democrazia».

Accanto ai livelli record di astensionismo, le elezioni europee del 2024 saranno ricordate per aver spalancato le porte del Parlamento Europeo all’estrema destra. Quest’ultima, al momento, si trova divisa grossomodo in tre gruppi parlamentari, ovvero i Conservatori e Riformisti Europei (ECR), che comprendono Fratelli d’Italia e il Partito di Diritto e Giustizia (PIS) polacco; i Patrioti per l’Europa, di cui fanno parte la Lega di Matteo Salvini, il Rassemblement National francese di Marine Le Pen e il Partito del premier ungherese Viktor Orban, Fidesz; e infine l’Europa delle Nazioni Sovrane (ESN), il cui membro di spicco è proprio il già citato AfD. Tutte e tre le formazioni di destra nel Parlamento Europeo hanno aumentato il proprio numero di seggi tra le elezioni del 2019 e quelle del 2024, riflettendo il successo che i partiti nazionali che le compongono stanno ottenendo a livello nazionale. «Eppure - riporta Tarquinio - le estreme destre sono una reale minaccia per la democrazia, perché i loro contenuti politici sono oggettivamente antidemocratici. La situazione odierna ricorda ciò che si è verificato in Europa cento anni fa, quando le democrazie non erano così avanzate come lo sono oggi e i teorici illiberali hanno sfruttato i meccanismi della democrazia liberale per prendere il controllo delle istituzioni e rovesciare la democrazia stessa. Interi pezzi delle società europee si sono messi prontamente in divisa, in camicia bruna o in camicia nera: questo è un problema vero che rischia di ripetersi, non un’illusione. Gli ammiccamenti neonazisti dell’AfD, per esempio, sono così evidenti da aver spinto il gruppo parlamentare europeo a cui era inizialmente affiliato (quello dei Patrioti) ad espellere l’ultradestra tedesca dai suoi ranghi. Ma ciò non significa che dentro a quello stesso gruppo non ci siano altre visioni egualmente nostalgiche e pericolose, anzi: l’esaltazione dei nazionalismi e delle differenze tra persone “di serie A” e “di serie B” sono prerogative di molti partiti europei di destra. Sono idee opposte all’umanesimo democratico, liberale e cristiano su cui si è basato il progetto stesso dell’Europa: se prendono piede nelle aree più marginalizzate, impoverite ed escluse dell’UE un motivo c’è, e le forze veramente democratiche devono fare i conti con questo problema».

Neanche l’Italia se la passa troppo bene

L’affluenza degli italiani alle urne per le Europee del 6-9 giugno è stata del 48,31%: ciò significa che meno di un italiano su due si è recato a votare per il rinnovo del Parlamento Europeo. Un astensionismo da record: mai si era registrato un turnover così basso, nel nostro Paese, alle Europee. Sicuramente, i “bei tempi” in cui l’85% degli italiani votava per le istituzioni comunitarie (come è avvenuto nel 1979) sono solo un lontano ricordo. Rispetto al 2019, l’affluenza è scesa addirittura del 6%, passando dal 54,50% al 48,31%. Il quadro che emerge da questi dati lascia trasparire una profonda disaffezione degli italiani nei confronti dell’Europa. Ma il problema non è solo a livello comunitario: i dati del Ministero dell’Interno, infatti, raccontano che l’affluenza alle elezioni politiche italiane è anch’essa andata calando in modo costante, passando dal 90% (o più) degli anni Sessanta al 64% del 2022. Ancora peggio, il Democracy Index dell’Economist assegna al Belpaese un punteggio di 7,69 su 10: l’Italia, insomma, non si colloca tra le “democrazie piene”, ma è una semplice “democrazia fallata”. Secondo Tarquinio, però, qualcosa si può ancora fare per migliorare le performance democratiche italiane: «Se vuole incrementare il suo livello di democrazia - o almeno mantenere quello attuale - l’Italia deve preservare la sua impalcatura costituzionale e il sistema di pesi e contrappesi creato dalle istituzioni previste dai Padri Costituenti», riporta l’ex-direttore dell’Avvenire.

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«Le due riforme costituzionali portate a termine nel nostro Paese - quella del 2001 del Titolo V della Costituzione e il taglio dei parlamentari del 2020 - sono delle vere e proprie bombe a orologeria per il nostro Paese. La prima contiene dei dispositivi che potrebbero spaccare a metà il Paese, incentivando l’egoismo di alcuni gruppi sociali e riducendo la rappresentanza di altri. La seconda, invece, doveva andare di pari passo con una riforma del sistema elettorale che aveva il compito di ridurre le distorsioni maggioritarie del nuovo sistema emerso con le Camere “tagliate”. Questa riforma elettorale, però, non è mai arrivata a causa dei calcoli politici dei partiti. Il risultato? Al governo, oggi, c’è una coalizione che può agire come se avesse ottenuto i tre quarti dei voti degli italiani, arrivando quasi a promulgare incontrastata delle leggi che potrebbero modificare l’impalcatura stessa dello Stato, quali la riforma del premierato. In realtà, questa compagine ha ottenuto solo il 44% delle preferenze di chi ha votato nel 2022, nonché il 27% dei voti del corpo elettorale complessivo, contando cioè chi non si è recato alle urne. Eppure, in Parlamento ha il 57% dei seggi. Riforme come l’introduzione del premierato sembrano innocue, ma in realtà rischiano di esautorare alcune cariche dello Stato - a partire dal Presidente della Repubblica - dei loro poteri, facendo crollare le garanzie della solidità della Costituzione introdotte dai Padri Costituenti», conclude Tarquinio.

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