In un panorama seriale sempre più vasto e frammentato, scegliere cosa guardare può diventare un’impresa. Per fortuna che ci sono io. Scherzo, scherzo. Cominciamo!
«Adolescence» (su Netflix)
Non potevo non cominciare dalla più chiacchierata, discussa, criticata e osannata del momento. La miniserie che è stata rilasciata lo scorso 13 marzo è subito balzata in cima alle classifiche delle più viste, animando i talk show del pomeridiano.
Ideata da Jack Thorne e Stephen Graham e diretta da Philip Barantini, si distingue per una scelta stilistica decisamente audace: ogni episodio è girato, infatti, in un unico piano sequenza, una tecnica cinematografica che consiste nel raccontare la storia senza stacchi di montaggio apparenti, immergendo lo spettatore nell’azione in modo realistico e coinvolgente.
La trama segue da diverse prospettive il caso di omicidio di una ragazzina, di cui è accusato un compagno di classe. Oltre alla ricerca della verità, la serie esplora temi complessi come l’influenza della sottocultura incel sui più giovani.
Il termine incel (abbreviazione di “involuntary celibate”, cioè “celibe involontario”) identifica una comunità online composta principalmente da uomini che si sentono esclusi dalle relazioni sentimentali e sessuali, spesso attribuendone la colpa a fattori esterni come l’aspetto fisico, la società o il femminismo. In alcuni ambienti online, questa frustrazione si trasforma in risentimento e misoginia, portando alla diffusione di ideologie pericolose e, in casi estremi, alla radicalizzazione. La serie mostra come questi concetti possano influenzare giovani insicuri e plasmare il loro modo di vedere il mondo, con conseguenze drammatiche.
Oltre all’indiscusso talento dell’attore protagonista Owen Cooper che interpreta Jamie Miller, un tredicenne che con il suo volto pulito e il suo sguardo da vittima prova in tutti i modi a convincerci della sua innocenza, il merito della serie sta nel riuscire a tenere legati insieme temi urgentissimi come l’ostilità che si propaga attraverso il web e sulle falle di un sistema scolastico britannico sempre più in difficoltà. Un thriller che scava nella psiche dei suoi protagonisti e, al tempo stesso, un dramma che mette in luce una realtà inquietante: nell’era digitale, la stanza di un bambino può trasformarsi nel luogo più insidioso e minaccioso per la sua stessa sicurezza.
Chiamati in causa anche i genitori che per una volta piuttosto che chiedersi se potevano fare di più, ammettono senza scuse: dovevamo fare di più. Basterà una serie tv per svegliarci tutti?
«Storia della mia famiglia» (su Netflix)
Erroneamente paragonata all’inimitabile «This is us», solo perché richiama sommessamente una delle sue citazioni più iconiche “I magnifici quattro” «Storia della mia famiglia» è uno dei prodotti seriali made in Italy meglio riusciti degli ultimi anni.
Il protagonista, Fausto, interpretato da un toccante Eduardo Scarpetta, è un uomo consapevole di essere arrivato ai suoi ultimi giorni a causa di una malattia incurabile, quindi cerca di spendere il tempo che gli resta per seminare futuro ai suoi figli, Libero ed Ercole, un futuro che dovranno affrontare senza di lui.
Nel tentativo di garantire loro una famiglia anche dopo la sua morte, Fausto affida i bambini a quattro persone fondamentali nella sua vita: sua madre Lucia l’irrisolta e risoluta Vanessa Scalera, suo fratello minore, il ribelle e nevrotico Valerio (Massimiliano Caiazzo) e i suoi due amici di sempre, l’evitante Maria (Cristiana Dell’Anna) e l’insicuro Demetrio (Antonio De Matteo). Una richiesta che costringe questo gruppo eterogeneo a mettere da parte le proprie fragilità e formare un nucleo familiare alternativo, tra errori, dolore e passaggi tragi-comici.
La narrazione si sviluppa su due piani temporali. Nel presente, seguiamo gli ultimi istanti di Fausto e le reazioni di chi deve raccogliere il suo testimone. Nei flashback, scritti da Filippo Gravino ed Elisa Dondi, scopriamo il suo passato: il complesso rapporto con Lucia, il legame complicato con Valerio, il senso di appartenenza che lo unisce a Maria e Demetrio e la storia d’amore che lo ha portato a diventare padre.
Gli attori danno vita ai loro personaggi con una naturalezza straordinaria. Vanessa Scalera tratteggia Lucia con un’intensità che racchiude tutto il peso dell’amore materno e della perdita. Massimiliano Caiazzo, nel ruolo di Valerio, incarna le insicurezze di un fratello imperfetto ma affettuoso. Cristiana Dell’Anna e Antonio De Matteo interpretano con sfumature autentiche Maria e Demetrio, due amici con un passato complicato, un presente fatto di responsabilità inaspettate e soprattutto di amori sbagliati.
«Storia della mia famiglia» è una serie che sa far piangere senza forzature e sa far sorridere nei momenti più inaspettati, muovendosi con disinvoltura in quello spazio delicato che unisce commedia e dolore.
«Dieci capodanni» (su Rai Play)
Cosa succede se due perfetti sconosciuti si incontrano l’ultima notte dell’anno e, senza saperlo, danno il via a un viaggio lungo un decennio? «Dieci Capodanni» («Los años nuevos») parte proprio da qui: Oscar, giovane medico in pronto soccorso con un futuro incerto, e Ana, barista in un locale alla moda di Madrid con un visto per il Canada quasi scaduto, si incrociano per caso in una notte di fine 2015. Tra brindisi, feste e un’alba condivisa, scatta una scintilla. Ma la loro storia non si consuma in poche ore: ogni episodio della serie li ritrova esattamente un anno dopo, in un nuovo capodanno, per raccontarci come il tempo li avvicini, li separi, li cambi.
La produzione ha il merito di tratteggiare i contorni di una commedia romantica glissando tutti i limiti del genere: niente zucchero eccessivo, niente facili cliché. Oscar e Ana crescono, si amano, si allontanano, si ritrovano, attraversano felicità e frustrazioni, cambi di rotta e decisioni difficili. E noi, spettatori, ci innamoriamo di loro, delle loro imperfezioni e dei frammenti di esistenza che vediamo solo attraverso il riflesso di una notte all’anno.
Con una scrittura essenziale e potente, Sorogoyen e il suo team di registi dipingono un affresco sull’amore e sul tempo che scorre. Ogni capodanno diventa una lente d’ingrandimento sulla vita, sul bilancio di ciò che è stato e sulle speranze di ciò che verrà.
E tra brindisi, uva da ingoiare in dodici secondi e parole dette o taciute, ci ritroviamo a specchiarci nei protagonisti, nelle loro scelte e nei loro sogni, riconoscendo in questa storia – intima e universale – un pezzo di noi.
«Apple cider Vegan» (su Netflix)
Ci sono storie che catturano l’attenzione perché radicate nella realtà, altre che affascinano per la loro assurdità. Ma cosa succede quando una vicenda è così incredibile da sembrare quasi impossibile? «Apple Cider Vinegar», la nuova miniserie Netflix, gioca proprio su questa sottile linea, mescolando realtà e inganno in un racconto che lascia spiazzati.
Ispirata a fatti realmente accaduti, la serie ripercorre la storia di Belle, giovane influencer del benessere capace di costruire un impero sulla sua presunta malattia, creando un personaggio che trae ispirazione dalla realtà per convincere i suoi followers ad abbandonare le cure della medicina tradizionale per seguire uno stile di vita “sano” basato su una dieta alimentare vegana, con tanto di app per preparare le ricette.
Con carisma e abilità manipolatoria, riesce a conquistare la fiducia di migliaia di persone, vendendo uno stile di vita all’insegna della guarigione naturale. Ma dietro la sua immagine scintillante si cela un inganno colossale, destinato a crollare sotto il peso delle bugie.
Il racconto si snoda su più livelli narrativi, intrecciando la parabola di Belle con le vite di coloro che hanno creduto alle sue parole. Donne e uomini in lotta con la malattia, disposti ad aggrapparsi a qualsiasi speranza, anche a una bugia ben confezionata. Il risultato è un viaggio attraverso il lato oscuro del culto della personalità, della credulità collettiva e dell’ossessione contemporanea per il benessere fai-da-te.
Con una messa in scena dal forte impatto visivo, «Apple Cider Vinegar» alterna toni documentaristici a una narrazione che sfiora il grottesco. Il montaggio serrato, l’uso di colori sgargianti e una colonna sonora pop contribuiscono a creare un contrasto straniante tra la superficie patinata della storia e la sua inquietante sostanza. E mentre la protagonista si rivolge direttamente al pubblico, spezzando la quarta parete con sguardi carichi di ironia, lo spettatore si trova a interrogarsi: quanto siamo disposti a credere a ciò che vogliamo sentirci dire?
In un’epoca in cui le fake news si diffondono con la velocità di un clic e il confine tra realtà e finzione si fa sempre più sfumato, questa serie diventa uno specchio spietato della società digitale. E lascia con una domanda difficile da ignorare: chi è il vero responsabile, chi inganna o chi si lascia ingannare?
«Bonus - Drive to survive» (su Netflix)
La inserisco come bonus dal momento che si tratta di una docuserie che ci porta dietro le quinte di uno sport abbastanza di nicchia, anche se negli ultimi anni abbiamo assistito ad un’inversione di tendenza soprattutto grazie ai social network, alle scuderie che si sono trasformate in brand che come la Ferrari, spopolano nella moda, in televisione, contaminano altri sport e via dicendo. Anche se, tutta questa concatenazione di cause potrebbe ridursi al fascino indiscusso che suscita Charles Leclerc, devo ammettere che uno dei miei più grandi rimpianti è quello di non aver cominciato a scrivere di Formula 1 quando in Italia a interessarci di F1 eravamo dal parterre femminile io e Francesca Michielin che non a caso ci ha scritto pure un pezzo sul tema.
Senza scomodare il filone nostalgia citando l’innominabile Michael Schumacher, il passaggio di Hamilton in Ferrari era un’occasione troppo allettante per farmi sfuggire l’opportunità di togliermi questo sassolino dalla scarpa.
A pochi giorni dall’inizio del nuovo Mondiale di Formula 1, Netflix ha rilasciato l’ultima stagione. Nel bene e nel male, questa docuserie è diventata un elemento imprescindibile del panorama della F1 moderna: ha ampliato l’audience dello sport, contribuendo alla sua popolarità in mercati nuovi, ma ha anche attirato critiche, dagli stessi protagonisti, per la sua tendenza a enfatizzare il lato drammatico delle vicende, a volte in modo artificioso.
Negli anni, la serie ha costruito il proprio successo concentrandosi su episodi tematici incentrati su singoli piloti o team principal, evitando una narrazione cronologica dell’intero Mondiale.
Il suo scopo non è ricostruire la stagione gara dopo gara, ma individuare trame avvincenti e personaggi capaci di catturare l’attenzione dello spettatore. Un format che ha funzionato al punto da diventare un modello replicato anche in altri sport, dal tennis al golf, fino al Tour de France e al rugby.
Tuttavia, con l’arrivo dell’ultima stagione, la serie si trova a dover affrontare una sfida inevitabile: mantenere alta l’attenzione con un format che ormai è ben noto e con un cast di personaggi che, salvo alcuni cambiamenti, resta lo stesso.
Nonostante ciò, «Drive to Survive» rimane una serie da vedere, anche per chi non è appassionato di Formula 1. Il suo vero punto di forza è la capacità di trasformare uno sport estremamente tecnico in una storia universale di ambizione, sacrificio e competizione, rendendo i protagonisti più umani e accessibili.
Chi l’avrebbe mai detto, che, ad esempio, al predestinato Charles Leclerc, i capelli glieli taglia ancora la mamma?