Prima di iniziare l’intervista, Rami e Bassam si guardano per qualche secondo. Tra i due scatta un sorriso rassicurante, un cenno di intesa. Sono anni ormai che viaggiano e si raccontano, insieme.
«Ho perso mia figlia Smadar il 4 settembre 1997». Pausa. «Aveva 14 anni». Comincia così Rami, ricordando l’inizio della sua “lunga notte gelida e buia”. Fino ad allora, aveva vissuto in una “bolla”, completamente avulso da quello che succedeva attorno a lui, in Palestina. Nell’ottobre del 1973 Rami era stato un giovane soldato nella guerra del Sinai, da cui era tornato deluso, arrabbiato e deciso a tenersi alla larga da qualsiasi presa di posizione. E così era stato: faceva il graphic designer, lavorava per chi lo pagava - che fosse di destra o di sinistra -, aveva una famiglia, tre figli. Quel giorno del 1997 però, la bolla nella quale viveva scoppiò in mille pezzi quando tre attentatori suicidi palestinesi si fecero esplodere in mezzo a Ben Yehuda Street, nel centro di Gerusalemme, uccidendo otto persone, tra cui sua figlia Smadar.
«La reazione immediata di fronte a quel dolore è stato il desiderio di vendetta - spiega oggi Rami - Era la strada più semplice: occhio per occhio». Poi però, lacerato dal dolore, cominciò a farsi delle domande: «uccidere qualcuno mi restituirà mia figlia? Provocare dolore ad altri lenirà il mio dolore?». La risposta era no, la sua Smadar non sarebbe tornata e il suo macigno non se ne sarebbe andato. «Mi sono ritrovato in una nuova situazione che nessuna persona dovrebbe mai affrontare - continua Rami - Dovevo prendere una decisione: che cosa ne avrei fatto di tutta quella rabbia? Il dolore ha la potenza dell’energia nucleare: bisogna decidere come usarlo».
E fu allora che iniziò a cercare di capire davvero che cosa fosse successo quel giorno alla sua bambina, che cosa avesse portato una persona ad essere tanto arrabbiata, folle e disperata da farsi esplodere. «Poi incontrai una persona che mi cambiò la vita», prosegue il papà di Smadar, riferendosi a Yizhak Frankenthal. Lui era «un ebreo, un religioso, un ortodosso» e, soprattutto, un padre che aveva perso suo figlio - Arik, un soldato rapito e ucciso da Hamas nel 1994 - e che aveva creato Parents Circle, un’associazione di persone, palestinesi ed ebrei, che avevano perduto i propri cari e ciononostante volevano la pace.
«L’incontro con quelle persone pazze - sorride Rami ricordando la prima volta che, scettico e cinico, vide i membri dell’associazione - cambiò la mia vita perché, mi vergogno ad ammetterlo, è stata la prima volta che vedevo i palestinesi come degli esseri umani. Avevo 47 anni». Non solo quindi operai nelle strade, terroristi o, peggio, oggetti, ma persone, «vittime del metodo di educazione israeliano», precisa.
«Da quell’incontro, 26 anni fa, dedico la mia vita ad andare ovunque sia possibile, a parlare con chiunque sia possibile (che voglia ascoltare oppure no) per trasmettere questo semplice messaggio: non siamo prigionieri di un destino che ci obbliga a ucciderci in questa Terra Santa. Non sta scritto da nessuna parte. Possiamo invertire, spezzare questo ciclo di violenza, di sangue, di vendetta, perché non finirà mai finché non iniziamo a parlarci. Questa attività mi ha dato il motivo per alzarmi ogni giorno e il significato a una cosa senza senso come uccidere una ragazzina di 14 anni da qualcuno che era così pazzo, pieno di rabbia e umiliazione da non considerarsi essere umano».
Rami rivolge lo sguardo a Bassam, come a dire “è il tuo turno ora”.
Per Bassam non era possibile vivere in quella “bolla” di cui aveva parlato Rami. Era nato a Gerico, in una terra, la Palestina, dove issare la propria bandiera poteva costare la prigione. I pensieri di ogni ragazzino palestinese come Bassam erano quelli riportati nel libro Apeirogon di McCann che narra proprio la vicenda dei due padri, intrecciata a quella dei due popoli feriti: «Delle persone vengono nel tuo villaggio, persone che non riconosci, che parlano una lingua che tu non capisci, chi sono? Sembrano alieni. Arrivano con le loro jeep e i loro mezzi corazzati e pattugliano le strade e ti dicono mostrami i documenti, mettiti contro il muro, chiudi il becco, girati, giù a terra. Invadono la tua casa tra le colline, la sbarrano, la demoliscono». Per un palestinese è impossibile rimanere indifferente a ciò che gli succede attorno ed è impossibile non reagire.
«L’oppressione crea resistenza» spiega Bassam che, fin da piccolo, sventolava proprio quella sua bandiera e lanciava pietre contro i soldati israeliani, assetato di vendetta e giustizia. Nel 1985 poi, in una caverna trovò delle granate e, insieme ai suoi amici, le gettò contro le macchine degli invasori. Venne preso e arrestato. Aveva 17 anni e rimase in una prigione israeliana per 7. «In carcere l’obiettivo per loro (le guardie israeliane, ndr) era quello di uccidere la nostra umanità in ogni momento. Per loro eravamo assassini, terroristi, per noi erano loro gli assassini. È molto difficile rimanere un essere umano normale in un carcere israeliano. Loro non ci convincevano a fare altro che continuare la lotta contro l’occupazione».
In prigione Bassam iniziò a studiare meglio il suo nemico e una sera vide un documentario sull’Olocausto, considerato dai palestinesi una grande bugia. «Cominciai a voler capire meglio chi fosse quella gente, quanto avesse sofferto, e perché nel ’48 avesse scaricato la sua oppressione su di noi e avesse continuato a farlo, rubando le nostre case, portando via la nostra terra, infliggendoci la nostra Nakba, la nostra catastrofe. Noi, i palestinesi, eravamo diventati le vittime delle vittime», scrive McCann riportando i pensieri di allora di Bassam. Era l’inizio di un dialogo, seppur faticoso.
Nel 1992 Bassam uscì di prigione; nel 1994, ebbe il primo di 6 figli. Era l’anno degli Accordi di Oslo, quando sembrava che la soluzione a due stati fosse vicina. Ben presto però si sgretolò anche quella speranza. Gli attentati che seguirono confermarono a Bassam che per raggiungere la sicurezza per Israele e la giustizia per la Palestina quella non era la strada. «Combattere è più semplice. È molto più difficile iniziare a parlare, sedersi, scoprire l’umanità e la nobiltà del tuo nemico, guardarlo negli occhi. Scoprire che il tuo nemico è esattamente come te. Questo è l’inizio della fine di ogni conflitto», afferma Aramin.
E così nel 2005 fu uno dei co-fondatori - insieme, tra gli altri, a Elik Elhanan, il figlio di Rami - dei “Combattenti per la pace”, un movimento di ex ufficiali israeliani e combattenti palestinesi, uniti dal comune obiettivo di pace. Insieme si incontrarono come nemici che volevano parlare.
Due anni dopo quel grande passo però, il 16 gennaio del 2007, arrivò il “martedì nero” di Bassam. Quel giorno sua figlia di dieci anni, Abir, si trovava accanto al cancello della scuola - aveva appena comprato delle caramelle - quando un membro della polizia di frontiera le sparò «da una distanza di 20 metri» precisa papà Bassam. «Due giorni dopo morì, nello stesso ospedale dove era nata e nello stesso ospedale dove anche Smadar era nata e morta. Tra di loro c’erano 10 anni, ma noi due - dice Bassam, indicando Rami, in ascolto alla sua destra - non ci conoscevamo, finché non abbiamo scoperto che il nostro nemico comune era lo stesso assassino che aveva preso la vita delle nostre figlie: l’occupazione israeliana». «Ho scritto dove Abir è caduta - continua - “il tuo assassino morirà e tu vivrai più a lungo di lui, perché andrò in giro a parlare di te finché vivrò”». E infatti così è stato per Bassam, «un uomo la cui figlia era stata uccisa da quelli con cui voleva fare la pace», come scrive Colum McCann.
A pochi giorni dalla morte di Abir, anche Bassam si unì al Parent Circle, dove conobbe Rami. Da quel momento, la loro vita divenne il loro messaggio. «Questo è il motivo per cui sono qui - afferma Aramin - per diffondere il messaggio di Abir e Smadar, due ragazzine innocenti che non sapevano nulla del conflitto, ma che persero la vita solo perché una era palestinese e l’altra israeliana. Senza nessuna colpa. Noi crediamo che uccidere dei bambini sia ingiustificabile in qualsiasi situazione. Abir e Smadar: loro sono la nostra motivazione per continuare a fare quello che facciamo».
I due si guardano e sorridono. Ancora uno sguardo di intesa, testimone di anni trascorsi a raccontare la loro storia, la storia di Abir e Smadar.
Ma come continuare questo dialogo oggi, gli chiedo, dopo il 7 ottobre, dopo i 40mila morti a Gaza? Come farlo lì, in quella terra martoriata dalla violenza?
«Noi stiamo nuotando contro la corrente - conferma Rami - Siamo come quelli che cercano di tirare fuori l’acqua dall’oceano con un piccolo cucchiaio. In entrambe le società c’è un enorme rispetto per le persone che hanno pagato un prezzo e usiamo questa volontà di essere ascoltati per esprimere questo messaggio di fondo: non finirà finché non ci parliamo. Io sono una vittima, ma non utilizzerò il mio essere vittima per rendere vittima qualcun altro. Comprendo pienamente la rabbia, la disperazione e il dolore di coloro che non sono in grado di fare questa scelta. I combattenti di Hamas del 7 ottobre erano ragazzi di 10/12 anni nel 2014 quando Israele ha bombardato Gaza. Che cosa ne sarà allora dei parenti e degli amici delle 40mila vittime di adesso? Come fermiamo questo ciclo senza fine di violenza? Solo attraverso un cessate il fuoco immediato, solo attraverso il rilascio di tutti i prigionieri e persone rapite. Non ho simpatia per Hamas. Hamas sono gli assassini di mia figlia. Ma parlerò con il diavolo stesso per salvare una sola goccia di sangue».
«Dobbiamo superare il passato che è molto doloroso - risponde Bassam - E questo è quello che intende mio fratello quando dice di superare la mentalità della vittima. Usiamo questo dolore per diffondere un messaggio di luce nella memoria delle nostre amate figlie». Il conflitto poi non è iniziato il 7 ottobre, precisa il padre di Abir: «Anche prima del 7 ottobre avevamo lo stesso governo che non ci permetteva di andare a parlare con i ragazzi israeliani, perché pensava che noi avvelenassimo la loro mente». Quando Bassam e Rami facevano la loro testimonianza, come membri del Parent Circle, non potevano infatti toccare l’argomento “occupazione israeliana”, se non volevano essere tacciati di antisemitismo o oscurati in televisione, come è successo di recente in diretta tv (schermo nero e scritta “ci scusiamo ma ci sono dei problemi tecnici” appena i due avevano citato il tema tabù). «Ma quando hanno ucciso i nostri figli, hanno ucciso anche la nostra paura. - spiega Bassam - Non abbiamo paura. Abbiamo l’autorità morale di dire basta a questa sofferenza e dolore».
«Quando entriamo in una classe delle superiori, in Israele o in Palestina, la terra trema. - prosegue Rami - È come camminare dentro la bocca aperta di un vulcano. C’è un mare di sangue per questi due popoli e tanta rabbia. La gran parte dei ragazzi israeliani e palestinesi non ha mai visto un palestinese o un israeliano che non abbia combattuto o che non abbia messo il proprio dolore sul piatto per comparare chi soffre di più. Questo terremoto però crea una frattura nel muro, attraverso la quale passa un po’ di luce che può scacciare tanta oscurità. Nessuno può ascoltarci e rimanere uguale a prima».
Dopo aver conosciuto davvero l’altro e la sua storia, diventa un dovere «alzare la propria voce di fronte alle atrocità che ci sono nel mondo» esorta Bassam. Altrimenti, «tu diventerai il prezzo, come civile. Alza la voce per te stesso, non per i palestinesi e israeliani».
Lui ha già pagato il prezzo più alto, così come suo fratello Rami che riprende la parola: «Sono figlio di un sopravvissuto all’Olocausto. Mio nonno era un “laureato” di Auschwitz. 85 anni fa, quando misero i miei genitori nei forni crematori, in Europa, gli uomini del mondo civilizzato non alzarono un dito. E oggi, che due nazioni pazze si stanno massacrando senza nessuna pietà, il mondo civilizzato sta in disparte e non fa niente. Farsi da parte mentre si sta compiendo un crimine è un crimine». Poi precisa: «Noi non vogliamo che voi importiate il nostro conflitto nella vostra società, avete già abbastanza problemi - ridacchia - non dovete essere “pro Israele” o “pro Palestina”. Questo non ci aiuta - Bassam agita il dito, confermando le parole del fratello - Noi vi chiediamo di essere pro pace, di essere contro l’ingiustizia, contro questa situazione in corso in cui delle persone stanno dominando altre persone. Questa è l’essenza del problema e si può cambiare, deve cambiare».
Ricordo allora la frase che Bassam cita spesso nei suoi interventi: «Alla fine, non ricorderemo le parole dei nostri nemici, ma il silenzio dei nostri amici». Lo diceva Martin Luther King.
«Finisco sempre i miei interventi con il messaggio di un ebreo - conclude Rami - e io sono ebreo, un ebreo fiero, con il massimo rispetto per la mia gente, per la mia storia, tradizioni e per la mia religione. Governare, opprimere, umiliare e occupare milioni e milioni di persone, per così tanti anni, senza nessun diritto democratico non è Ebraismo. Punto. Non ci sono dubbi su questo. Ed essere contro ciò non è antisemitismo. Se vi mettete a discutere su questo, potete citarmi».
Rivolgo un’ultima domanda, pensando alla cornice dell’evento in cui l’indomani avrebbero ricevuto il “Premio Costruttori di ponti 2024”: che cosa è per questi due padri la Fede? «La religione è Amore, Umanità, è un modo di vivere la vita - risponde Bassam - È un modo per rispettare gli altri. Per me, la relazione che c’è fra me e mio fratello Rami è religione».
Di nuovo quello sguardo di una pace fatta. “Non finirà finché non parliamo”.