L’opera si è avvalsa del contributo dei cittadini di Borgo Pignolo e Borgo S. Caterina, che nei mesi scorsi hanno donato camicie vecchie e nuove di vari colori e tessuti, che l’artista ha “steso” in facciata a disegnare una catena affollata di frammenti di quotidiano, di memorie, di relazioni.
Ma quello che doveva essere un festoso intervento di arte partecipata da condividere con la città ha invece scatenato un vero putiferio, un temporale di polemiche che non si sono fatte attendere sui social e che non si sono ancora placate. «Arte demenziale» e «degrado artistico» sono le definizioni più pacate riservate all’opera della Kaikkonen, in un climax deprimente di ironia, spesso scontata e sguaiata, e di sciabolate pseudo-intellettuali che arrivano a scomodare Kant e la velleità dell’arte concettuale.
L’episodio induce a riflettere: perché proprio un’opera come questa è capace di innescare un “analfabetismo artistico di ritorno” in una città come Bergamo, per nulla digiuna di arte contemporanea, tanto da averle dedicato una GAMeC e una costellazione di realtà associative e di spazi pubblici e privati? Perché tanti bergamaschi hanno fatto code interminabili, come ipnotizzati dalle accensioni in pieno stile Las Vegas di «Notti di luce» e poi non riescono a sintonizzarsi con la poesia semplice e delicata dei “panni stesi” dalla Kaikkonen?
Ecco perché mi trovo a scrivere una piccola «apologia dei panni stesi», in controcanto alla polemica imbarazzante – nei modi, nei toni e nelle argomentazioni – nei confronti di un’opera che, piaccia o non piaccia (anche se questo non è proprio l’approccio giusto all’arte) di imbarazzante non ha proprio nulla.
«Una brutta copia delle vie dei quartieri spagnoli a Napoli!», «A Napoli e a Venezia ve ne sono di molto migliori gratuitamente…», «Hanno appena fatto il bucato! Sembra di essere a Napoli!».
È davvero un mistero: a Napoli quella dei panni stesi è celebrata come un’“arte”, issata come il simbolo di un intero popolo, un must da fotografare e “instagrammare” assolutamente, così come migliaia di visitatori osservano sospiranti le lunghe gittate disegnate dai panni tra calli e corti di Venezia o tra i carruggi di Genova. Ma sono uno scandalo in via Tasso a Bergamo, «una strada di quelle dignitosamente tranquille e borghesi del centro». Un’anomalia, questa, che curiosamente è tutta bergamasca, perché Kaikkonen, che ha alle spalle una lunga carriera internazionale, negli anni ha allestito le sue installazioni in tanti palcoscenici urbani d’eccezione, non solo all’estero ma anche in Italia: dall’esterno del Maxxi di Roma al Colonnato della Rotonda di via Besana di Milano, dalla Loggia del Vasari di Arezzo alla sede della Collezione Maramotti a Reggio Emilia.
Se non bastasse, l’11 giugno scorso, in omaggio alla Capitale della Cultura, è stata inaugurata all’esterno della Chiesa di Borgo Trento di Brescia «Reaching Light», installazione della stessa Kaikkonen, “specchio” di quella bergamasca, composta da indumenti donati dalla comunità bresciana. Gente in festa, tante teste all’insù, polemiche zero.
«Ciò che deve essere spiegato non è arte». «Un’opera d’arte è come una barzelletta: se necessita di spiegazioni per essere riconosciuta come tale, allora significa che non è riuscita bene». «Un’opera che va spiegata e non arriva, già questo è un flop». Posto che l’immediata comprensione non è mai stato un criterio per distinguere ciò che è arte da ciò che non lo è – altrimenti quelli di Fontana non sarebbero altro che tagli e buchi della serie «lo potevo fare anch’io» – di fronte all’opera della Kaikkonen mi chiedo: ma che cosa c’è da spiegare?
La poetica dei panni stesi ha una lunga, lunghissima storia perché è una delle metafore più universali che ci siano. Vuole dirmi, chi oggi dice di non capire, di non essere mai stato catturato dall’incantesimo dei panni svolazzanti stesi ad asciugare al sole, di non averne mai assaporato la malinconia e il carico di ricordi? Di non aver mai custodito l’indumento di una persona cara per sentirla ancora vicina e magari ricercarvi il profumo di una presenza che non c’è più? Di non aver mai osservato quanto i panni stesi “fuori” dalle case raccontano della vita di chi le vive “dentro”?
Che cosa c’è da spiegare nel «cassone odorato di lavanda» di Pascoli, nelle «mille lenzuola al vento» della «Sera dei Miracoli» di Lucio Dalla o nei panni stesi immortalati nelle opere di Brueghel, Manet, Pissarro, Van Gogh, Munch, Mondrian, Kandinsky, Schiele, Rosai, e così via all’infinito? Quello tra abiti, corpo e memoria è un legame archetipale e lampante, che tutti condividiamo, senza bisogno che ci venga insegnato o spiegato.
Non ci si capacita di come, in una città abituata ormai da molti anni alle incursioni dell’arte contemporanea, anche le più criptiche, la polemica sia riservata proprio a un’opera che davvero si spiega da sola. Possibile che di fronte a mille camicie al vento, non ci sia la curiosità di interrogarsi sulle storie che racchiudono? Sul sito del progetto se ne possono ascoltare molte e significative. Non è mai tardi per capire.
Conclusione: «La catia làandera la troa mai la buna preda»
L’unico sospetto che mi viene, da orgogliosamente bergamasca, è che il vero innesco di questa polemica sia il soggetto specifico di quest’opera d’arte: quei panni stesi che a Napoli sono pittoresche bandiere di identità, ma che nel “salotto borghese” di Bergamo diventano bandiere di quella dimensione autenticamente “popolare”, di quelle umili origini e di quel passato di fatica e di povertà che, dalle valli alla pianura fino al cuore della città, passo dopo passo, bucato dopo bucato, hanno costruito il “brand” del popolo bergamasco laborioso, tenace e combattivo.
Dobbiamo dire grazie alla tenacia dei nostri nonni, bisnonni e dei nostri avi se ora Bergamo è una città bella e anche ricca. La “buona borghesia” bergamasca di oggi dovrebbe riconoscersi con orgoglio nei panni stesi di Kaarina Kaikkonen, ricordare quando il bucato sventolava indomito al vento tra gli alberi della Fara come alle pareti delle botteghe dell’antica Fiera (ovvero, quello che oggi è il borghesissimo Sentierone) e tenere presente che se «i panni sporchi si lavano in famiglia», il bucato ha bisogno della luce del sole, ed è quando metti i panni fuori ad asciugare che entra in gioco tutta la comunità.
Sarà un caso che il lavatoio di via Mario Lupo sia tra i luoghi più fotografati della città? Ma si sa, «La catia làandera la troa mai la buna preda» («La cattiva lavandaia non trova mai la pietra buona»): per chi non vuole capire, l’installazione di via Tasso resta una indecorosa parata di panni stesi.