Benemerito, sindaco, superman, capitano e bandiera. E ancora «ZiDoni» e «MaraDoni». Tra realtà e immaginario del popolo atalantino, Cristiano Doni è un simbolo dello sport bergamasco. Lui, che bergamasco lo è di adozione e non di sangue (è nato a Roma da genitori genovesi), ha saputo conquistare il cuore dei tifosi sul campo, diventando il primo goleador nerazzurro di sempre con 96 reti, ma soprattutto non perde occasione per dimostrare, e dichiarare pubblicamente, quell’attaccamento alla maglia, e alla terra che essa rappresenta, proprio dei giocatori-bandiera. Alla Del Piero e alla Totti, per intenderci. L’ultima uscita: «Non andrei al Manchester City degli sceicchi nemmeno per tutto l’oro del mondo». Magari è facile dirlo a 35 anni ma Doni è uno che lo pensa davvero. A Bergamo confessa di aver trovato la sua collocazione ideale. Per la squadra, per la città, per il feeling con la gente. «Per me questa è una maglia davvero speciale, quasi magica – scrive sul suo sito www.cristianodoni.com – forse la potrei scherzosamente avvicinare al costume che trasformava Clark Kent in Superman. Ogni volta che la indosso sento una forza e un’energia che mi permette di fare cose che altrimenti non riuscirei mai a fare». Altro che scherzi: Doni, venuto alla luce nel 1973, il primo di aprile, è in realtà un dono degli dei del pallone alla causa atalantina, l’unica per la quale in carriera è riuscito a esprimere il suo talento come in nessun’altra squadra. Per tutte queste ragioni i tifosi lo invocano sindaco di Bergamo e il sindaco vero il 20 dicembre 2008 gli ha conferito il riconoscimento di cittadino benemerito. Ma già un anno prima il Bepi, il popolarissimo rocker di Rovetta che canta in dialetto, lo aveva consacrato dedicando una canzone alle sue gesta. E così il buon Cristiano cammina a testa alta e lo ribadisce platealmente con il gesto di sollevare il mento con la mano dopo ogni rete segnata. Tutti a chiedergli ogni volta: perché lo fai, cosa significa? E lui: «Una vecchia storia», ma poi non svela mai il mistero. In internet circola una suggestiva interpretazione, anche se non è la sua spiegazione: Doni esulta in quel modo da quando fu completamente assolto dall’accusa di aver pilotato, insieme ad altri giocatori, il risultato di un’Atalanta-Pistoiese (1-1) del 20 agosto 2000 in Coppa Italia, perché nei giorni difficili aveva replicato «ne uscirò a testa alta». Guadagnare una posizione di rilievo nel panorama calcistico italiano non è stato come passeggiare sul Sentierone. Doni ammette di non essere stato il classico predestinato, quello che dopo la trafila in un settore giovanile di un club importante approda presto in prima squadra. Papà doveva spostarsi spesso per lavoro e Cristiano aveva appena 3 anni quando la famiglia Doni si trasferisce a Verona: lì è cresciuto calcisticamente, dalle giovanili del Crazy Colombo fino a quando, all’età di 17 anni, entra a far parte della Primavera del Modena allenata da Sergio Buso. Due anni dopo passa al Rimini in C2 con il quale centra la promozione, poi alla Pistoiese in C1 e, finalmente, dal ’94 al ’96, in una piazza importante come Bologna, alla corte del carismatico Renzo Ulivieri, con cui ha un rapporto un po’ conflittuale ma riesce a ottenere due promozioni consecutive, dalla C1 alla A. Con Ulivieri non è più aria e Doni va al Brescia di Edy Reja, tecnico che però, dopo dieci giorni, entra in disaccordo con la società e fa le valige. Quell’anno, ricorda Doni, è un susseguirsi di allenatori. Cristiano risente della situazione caotica, il Brescia retrocede in B. Non tutti i mali vengono per nuocere possono dire oggi i tifosi nerazzurri: quella stagione tribolata spinge Doni verso la svolta, a Bergamo, agli ordini di mister Elia Mutti. Comincia così la sua avventura atalantina, campionato 1998-99, tra i cadetti. Il primo anno non è da superman ma il successivo, sotto la guida di Giovanni Valvassori, Doni esplode e l’Atalanta torna in serie A. Con il passare degli anni la stima per il fantasista cresce in maniera esponenziale tra il popolo nerazzurro, che adora la sua tecnica sopraffina, la sua capacità di ispirare il gioco della squadra e di segnare con continuità e in tutti i modi, la sua mira sui calci piazzati. Semmai l’unica pecca nella sua carriera è la vena polemica che ogni tanto lo tradisce procurandogli cartellini arbitrali evitabili. Nel 2001-2002 Giovanni Trapattoni lo chiama in Nazionale, Cristiano realizza un gol contro il Giappone, va al Mondiale coreano, infelice per l’Italia «ma un’esperienza meravigliosa sul piano personale», racconta Doni. La stagione seguente fatica a trovare la condizione e, pur non perdendo il vizio del gol, non riesce a salvare l’Atalanta dalla caduta in B. E’ il momento di cogliere l’occasione per un salto di qualità, anche Bergamo lo capisce e, seppure a malincuore, nel 2003 lo saluta augurandogli i traguardi importanti che merita: Doni accetta la chiamata della Sampdoria. Ma lontano dall’Atalanta i suoi poteri da superman del pallone sembrano svanire. Se poi ci si mettono gli infortuni a raffica, si potrebbe scrivere che una maledizione si abbatte sul campione in ginocchio. Nel 2005 prova a rialzarsi in Spagna nel Maiorca di Hector Cuper: il clima calcistico, meno stressante di quello italiano, sembra ideale. Doni ricomincia a carburare. E’ un segno degli dei del pallone perché ricomincia anche a pensare all’Atalanta. Il 30 agosto 2006 corona il sogno di tornare a Bergamo, che ovviamente lo accoglie a braccia aperte. La favola di Doni, grande capitano atalantino, ricomincia e non vuole smettere.