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Venerdì 02 Agosto 2013
Il tramonto di B.
spaventa il governo
Giorgio Gandola
Il giorno dopo è uguale al giorno prima: condannato. Silvio Berlusconi era entrato nell'aula di Cassazione con lo spettro di quattro anni di pena da scontare come da decisione della Corte d'Appello di Milano e ne è uscito con la conferma di tutto ciò.
Il giorno dopo è uguale al giorno prima: condannato. Silvio Berlusconi era entrato nell'aula di Cassazione con lo spettro di quattro anni di pena da scontare come da decisione della Corte d'Appello di Milano e ne è uscito con la conferma di tutto ciò.
Un macigno in un pomeriggio lungo e afoso. Un macigno che certamente peserà sul suo futuro politico e, forse, anche su quello del governo delle larghe intese. Si pensava ad una sentenza pilatesca che salvasse codici e apparenze, nella più ampia tradizione leguleia (i margini per lo 0-0 in queste partite ci sono sempre).
E invece la Suprema corte ha fatto calare un punto esclamativo grande come la Tour Eiffel sulla vicenda della frode fiscale di Mediaset, con prevedibili reazioni a catena dentro i palazzi della politica. Dal punto di vista giudiziario gli effetti sono due: 1) Berlusconi rischia di scontare la pena in un domicilio coatto di sua scelta o l'affidamento ai servizi sociali per un anno (gli altri tre gli sono stati abbonati per l'indulto); 2) il leader del Pdl vede rimbalzare ancora a Milano il fascicolo dell'interdizione dai pubblici uffici che tanto temeva.
Su questo argomento la Cassazione ha chiesto alla corte d'Appello (un'altra sezione) di ridefinire la pena accessoria. Tutto chiaro, tutto lapidario. E tutto terribilmente complicato per ciò che questa decisione comporta dal punto di vista politico. Ci si aspettava un verdetto stile Andreotti: un po' assolto e un po' condannato.
Invece l'orizzonte è cristallino, brilla una lama affilata. È la prima sentenza definitiva, da oggi Berlusconi è tecnicamente un pregiudicato e non può più fregiarsi del titolo di cavaliere. «Volenti o dolenti», come diceva Giovanni Trapattoni (filosofo di saggezza popolare almeno quanto Emanuele Severino) tutti dovranno tenerne conto. Ma non si possono neppure dimenticare vent'anni di governo e di opposizione di un centrodestra guidato da quel Berlusconi che cominciò a percorrere le aule di tribunale negli anni Novanta.
E che, nonostante ciò, ha ottenuto una legittimazione popolare a guidare il Paese per tre volte con più di dieci milioni di voti. Nonostante le sue parole come sempre ferme su posizioni da trincea («Parte della magistratura irresponsabile, resto in campo e rifondo forza Italia»), la sensazione è che la carriera parlamentare del più importante e discusso leader italiano della seconda repubblica sia al tramonto.
Anche perché nuove tempeste sono in arrivo: il processo Ruby in appello potrebbe aggiungere sale al sale. Scenario visto da destra: i giudici ce l'hanno fatta a eliminarlo. Visto da sinistra: giustizia è fatta. Ma in questo momento, con le parole della Suprema corte che ancora aleggiano nell'aria, poco importa la sponda di provenienza dei giudizi.
Conta molto di più capire se la precaria stabilità dell'esecutivo che dovrebbe riportare l'Italia su rotte meno pericolose sia salvaguardata. Alla vigilia del pronunciamento di Cassazione lo stesso Silvio Berlusconi aveva rassicurato tutti: «Il governo manterrà la sua rotta». Ma da oggi ogni sospiro sarà un indicatore, ogni proposta di legge sarà una potenziale trappola.
Letta nipote e Letta zio saranno costretti a percorrere gli schieramenti con attitudine manzoniana a «sopire e troncare» due fibrillazioni. Quella del centrodestra, che dipinge Berlusconi come Socrate davanti alla cicuta, determinato a reagire per salvaguardare l'onore ferito del leader. Quella del centrosinistra (soprattutto renziano e vendoliano), tentato ancor più di far saltare il banco davanti a un alleato adesso davvero imbarazzante.
Su tutto ciò aleggia un'incertezza grigia, in un cielo percorso da poche aquile e da molti corvi. A tintinnare cristallina e ad offrire un giudizio non convenzionale dell'estenuante giornata, arriva anche una frase del presidente Napolitano, che da Bolzano non si dimentica di chiedere il rispetto per la magistratura, ma subito dopo aggiunge con insospettato tempismo: «Adesso via con la riforma della Giustizia».
Un concetto che, espresso a sentenza caldissima, ha un significato preciso: l'atto finale non gli è piaciuto, la politica decapitata dai tribunali non gli appartiene (o non gli appartiene più). Insomma, servono correttivi. E mettere mano al dossier Giustizia con spirito bipartisan gli sembra gesto non più dilazionabile. Sette anni di processo, sette ore di Camera di consiglio: adesso la condanna che somiglia a un lungo addio diventa storia. Ma una storia - conoscendo il signor B - senza l'ultima pagina.
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