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Martedì 30 Luglio 2013
Maria Mencaroni Zoppetti:
«Astino, è l'ora del coraggio»
di Franco Cattaneo
Maria Mencaroni Zoppetti guida l'Ateneo di Scienze Lettere e Arti di Bergamo da sette anni ed è la prima donna presidente. L'Ateneo è una delle più antiche istituzioni culturali della città.
Maria Mencaroni Zoppetti guida l'Ateneo di Scienze Lettere e Arti di Bergamo da sette anni ed è la prima donna presidente. L'Ateneo, la cui importanza forse sfugge al grande pubblico, è una delle più antiche istituzioni culturali della città: nato nel 1642, ha rappresentato un caposaldo del pensiero lungo i secoli annoverando tra i soci accademici (oggi sono più di trecento, tra questi anche stranieri) alcuni dei personaggi più rappresentativi della cultura: in tempi recenti ha modificato la traiettoria concettuale, impegnandosi direttamente nella società.
Tutto questo ha avuto inizio con la presidenza di Lelio Pagani, uomo di grande sensibilità culturale, morto nel gennaio 2006. Nel solco della continuità si inserisce la stagione della presidente Mencaroni: «La mia presidenza - spiega seduta alla scrivania nella sede dell'Ateneo in via Tasso - ha inserito l'istituzione nel dibattito pubblico, moltiplicando iniziative e pubblicazioni che fanno memoria del lavoro svolto. Diciamo che si è attuata una rivoluzione silenziosa, in nome della cultura, affinché l'Ateneo sia al passo con i tempi».
L'attuale presidente, sposata con l'industriale Dario Zoppetti, è originaria di Perugia dove s'è laureata in Filosofia morale e vive a Bergamo dai primi anni '70 quando sbarcò come insegnante a Gorlago: «Allora nella mia città c'erano tanti laureati e pochi posti, mentre da voi succedeva il contrario». Erano gli anni in cui la Bergamo che si affacciava alla modernità industriale soffriva di un basso tasso di scolarizzazione, deficit colmato solo in anni recenti ma che ha sedimentato un senso comune non sempre soddisfacente. Da qui, dal peso specifico della dimensione culturale e dal suo rapporto con la vita civile di Bergamo, parte questo colloquio con una intelligenza critica e libera da condizionamenti che ha qualcosa da dire sull'approccio della nostra terra ai processi di modernizzazione.
Par di capire che l'Ateneo coltivi ormai un'attenzione plurale in campo scientifico: uno spettro che comprende anche l'ambito economico e sociale.
«È sempre stato così, naturalmente in relazione ai tempi che si vivevano. Oggi, nella confusione dei "tutti che si occupano di tutto", senza invadere campi altrui, operiamo in molti ambiti dando rilievo al contesto culturale in cui si inquadrano i fenomeni. La cultura, un prisma dalle molte facce, è strumento per comprendere la realtà. Tutto ciò che facciamo tiene conto del sistema delle entità che operano sul territorio, all'insegna della condivisione e della valorizzazione. I nostri progetti sono sempre aperti agli altri e si tratta di iniziative complesse, perché vanno dalle arti all'economia, alla politica alla storia, ecc. Tra le molte iniziative ultimamente realizzate, prendo ad esempio FUTURO.BG. Abbiamo scelto come pretesto Astino per riflettere su quanto sia importante che una comunità sappia dove vuole arrivare, prima di limitarsi a dire che se le cose vanno male è sempre colpa di qualcun altro».
Ecco, affrontiamo la questione Astino, l'ex monastero del 1200: che utilizzo bisogna farne?
«Alla fine del 2011 Gabriele Rinaldi, direttore dell'Orto Botanico e socio dell'Ateneo, propose di continuare nell'indagine condotta nel 2007 dalla nostra istituzione sulla storia dei giardini, del territorio, del paesaggio, puntando l'attenzione sulla realtà della Val d'Astino per interpretare il suo possibile futuro. Insieme con Donatella Moltrasio Venier, della Delegazione di Bergamo del Fai, abbiamo ritenuto che Astino, una realtà un tempo significativa, andata progressivamente in rovina, sino al recupero di cui si sta facendo carico la Mia, potesse servire da pretesto per comprendere dinamiche complesse che si stanno giocando sul territorio. E così abbiamo organizzato più di venti incontri con tutte le parti interessate, seguiti da più di duemila persone. Il recupero di quel complesso ha un grande valore, anche se, almeno sinora, non è delineato un destino certo».
Appunto, il cuore del problema è proprio questo.
«Sì, ma, ancora una volta, va fatta una premessa culturale. Ho l'impressione che, per quanto il discorso valga ovunque e per tutti, ci sia una particolare attitudine bergamasca a bloccare il presente in un gioco di immagini nostalgiche. Ad esempio Astino, e anche tutta Città Alta, sono visti da molti non come ricchezze collettive, ma come panorami per gli occhi e per la memoria. Invece noi, dinanzi ad un progetto non ancora definito come quello su Astino, riteniamo che non si debba considerare come una "cartolina" da ammirare, ma come un bene che dovrà avere un futuro per Bergamo e i bergamaschi. Per questo abbiamo svolto ricerche storiche e ambientali, studiato l'operosità dei vallombrosani, il loro ruolo in quel luogo, la loro capacità di relazione con il resto della città, fino a condizionarne la storia. Allo stato attuale sembra che il progetto contempli ipotesi di frazionamento, cioè una divisione fra l'interno e l'esterno dell'ex monastero. Non crediamo che sia la soluzione migliore. Per capire di più abbiamo interpellato studiosi di varie discipline e lo stesso Fai, verificando esperienze analoghe in Europa, osservando da vicino realtà che si sostengono e che rimangono collettivamente usufruibili come il bosco di San Francesco ad Assisi. In breve: abbiamo cominciato a ragionare su un "futuro per" e giocoforza su un turismo compatibile con l'ambiente, cercando pure di capire come il turismo si deve muovere e non solo per quel che riguarda Astino. Si è scatenato un dibattito animato: dal nostro punto di vista il turismo sta diventando un po' uno slogan, un mantra. Si parla spesso di turismo culturale, ma l'aggettivo rischia di essere una sorta di etichetta su cui non sono scritti gli ingredienti. Astino è stato il trampolino che ci ha consentito di affrontare altri temi legati all'oggi, come l'Expo».
D'accordo, ma la vostra proposta?
«L'idea che abbiamo lanciato è che deve essere direttamente la Mia a far vivere la Valle d'Astino. Se c'è un ente di questo genere che garantisce e interpreta il futuro, si può recuperare, in chiave moderna, tutta la tradizione del luogo: dalla devozione all'accoglienza, al lavoro sui terreni agricoli. Ad Astino tornerebbero sapienze antiche, ma anche le opere d'arte, la biblioteca, l'archivio. Si potrebbe dar vita ad uno straordinario laboratorio culturale, un unicum fortemente attrattivo. È un'opportunità formidabile anche per la Mia, protagonista della storia nuova di questo luogo. Certo, servono coraggio e anche tante forze».
Osservo da parte sua una critica a come viene inteso oggi il senso del turismo culturale.
«Ripeto, l'aggettivo culturale nella formula di etichetta semplicemente estetizzante riguarda un fenomeno purtroppo generalizzato. Intendo dire che quello che, ovunque, viene propagandato come turismo culturale sembra un pacchetto di offerte ad un cliente generico e non troppo motivato, e che si riassume nell'albergo o nel b&b, nel cibo, soprattutto nel cibo, e nella visita a qualcosa. Ecco, questa deriva che omologa tutto mortifica veramente il nostro patrimonio e interpreta il turismo in una maniera retriva. Sono convinta che la differenza faccia la qualità: bisogna valorizzare ciò che noi siamo e ciò che abbiamo di diverso da tutti gli altri (non vado a New York perché ho un'allettante proposta di soggiorno e di consumo, ma perché voglio vedere lo straordinario percorso verde che hanno costruito sulla dismessa linea ferroviaria sopraelevata che attraversa Brooklyn!): in questo deve consistere l'offerta primaria. Mentre oggi sembra prevalere l'idea del cibo come unica soluzione o interesse prevalente. Una volta c'era chi diceva, anche qui nella Bergamasca, che la cultura non fa mangiare, mentre oggi stiamo tutti tentando di mangiare proponendo un certo tipo di turismo "culturale": credo che sia una pia illusione. Sono critica se si pensa al turismo come a un viatico, sperando di attrarre moltitudini di consumatori, illudendosi che il massimo della cultura siano lo slow food, il chilometro zero, di per sé apprezzabili ma certo non esaurienti. Invece bisogna attrarre turismo in nome di una Bergamo che è tra le più belle città fortezza del Nord, all'interno di uno splendido territorio, esempio di straordinaria architettura antica, con un centro moderno interessante, con una cultura da vendere. Con l'Europa dentro, perché Bergamo è più vicina all'Europa che a Roma. Semplificando: non offriamo solo panini, pensando che questo costituisca chissà quali soluzioni ai problemi del lavoro, non sarà così».
Lei, in qualche misura, sta dando le coordinate per la campagna che vede Bergamo impegnata nella corsa per capitale europea della cultura.
«È una splendida occasione per ragionare su noi stessi: non tanto per vincere, e se vinciamo tanto meglio, ma per fare battaglie che non appaiano solo di facciata. Vede, ben venga, che rimanga bene pubblico Casa Suardi, ben venga tutto il dibattito sul futuro degli ex Riuniti (ma quanti altri abbiamo dimenticato?). Tuttavia non si può sempre colpevolizzare l'amministrazione che vuole vendere per una serie di motivi e nello stesso tempo non avere un'idea concreta, fattibile, sull'uso del bene che si vuole salvare. Non basta dire che questi immobili storici devono continuare a far parte della storia della città perché siamo nel campo dell'ovvio, là dove il problema aperto è: che ne facciamo? Allora qui diventiamo un po' magmatici, privi di slancio e di creatività. È proprio su questo passaggio che serve il coraggio per pensare la città come un insieme di cui prendersi cura, da progettare con armonia, non come un mosaico frammentato. Troppo spesso accade che diamo importanza straordinaria a una cosa, mentre sul resto si spengono i riflettori».
Anche l'Ateneo è coinvolto nel programma di Bergamo capitale europea della cultura?
«Certo, siamo coinvolti e io, in quanto presidente, in modo particolare. Il progetto è in corso di elaborazione, sappiamo che il compito tocca ad un vertice e che poi ci sono realtà che devono concentrare le loro forze per rendere operativo il tutto e infine ci sono istituzioni come l'Ateneo che devono fare qualcosa: formulare idee, fornire indicazioni e prepararsi a lavorare. Noi stiamo già preparandoci, riflettendo sul cosa e sul come e siamo convinti che per pensare il futuro vadano coinvolte da subito le scuole, almeno le superiori, ma non ci risulta sia stato ancora concretamente preso in considerazione».
Per capirci: la vostra filosofia è per coinvolgere tutte le forze del territorio, con una ben chiara gerarchia di valori.
«Sono di Perugia e bergamasca adottiva, ho il vantaggio di raffrontare due territori e due comunità che competono per lo stesso obiettivo. Non ho paura di dire che Perugia, in corsa come Bergamo per la capitale europea della cultura, pur con tutti i suoi limiti, è più avanti di noi non solo nella propaganda e nel coinvolgimento, ma anche nella modernità visto che ha risolto da tempo, con Minimetrò, parcheggi e scale mobili i problemi della gestione dell'accoglienza. La filosofia dell'Ateneo se è critica verso l'idea di un turismo che risolverebbe tutti i mali, è altrettanto convinta di non poter accettare la strisciante visione catastrofista di coloro che credono che il mondo del lavoro sia in via d'estinzione. So bene anch'io che c'è una crisi drammatica, ma qui ci sono imprenditori e lavoratori capaci di reagire anche nei momenti peggiori, è storicamente dimostrato. Secondo me, questo è l'oro di Bergamo, il suo autentico tesoretto è la gente bergamasca. La comunità del lavoro sa da sempre relazionarsi con il mondo. Ho curato l'organizzazione scientifica del Museo storico nel Palazzo del Podestà nel quale sono stati valorizzati esempi significativi di bergamaschi che viaggiavano ovunque già nel '500, con una fiorente circolazione di commerci, di ricchezza e di conseguenza di cultura: si pensi a Gandino scrigno dell'arte, un paese che a prima vista pare periferico, fortemente segnato da quel ciclo virtuoso».
Lei sta dando un'immagine diversa rispetto agli stereotipi legati ad una chiusura d'antan dell'uomo bergamasco.
«Sto semplicemente descrivendo dati di fatto: l'intraprendenza dei bergamaschi, sin dall'antico, l'internazionalizzazione dell'economia che è servita anche a far circolare la cultura. Una ricchezza che è patrimonio storico consolidato, anche se oggi sembriamo non accorgercene, così presi da un presente onnivoro, distratti nei confronti del passato (o è un deficit culturale?), assuefatti alla "damnatio memoriae". Ma se vogliamo parlare del "bergamasco" di oggi in maniera critica ma costruttiva, potremmo da una parte mettere la sua forza, la sua capacità di fare, di ottenere risultati, la sua curiosità, ma dall'altra il suo individuale interesse per la cultura (quanti sono i cultori d'arte e i collezionisti bergamaschi!) che non riesce a trasformarsi in un bene per la comunità, tale da renderla migliore e più aperta. Un patrimonio che troppo spesso resta confinato nel recinto individuale o della famiglia, senza riuscire a trasformare la società. È in questo mancato passaggio che si avverte in tutta evidenza la chiusura dell'uomo bergamasco, perché risulta debole quel coagulante decisivo che è la cultura intesa in senso istituzionale. Il salto di qualità che manca ancora a questa grande e riconosciuta laboriosità è la consapevolezza che bisogna mantenere alta la guardia culturale: una società competitiva è tale se lo è sul versante della conoscenza e, non è un paradosso, del sapere umanistico. Prendiamo l'Università, che è certamente d'eccellenza, ma siamo proprio sicuri che Bergamo sia definibile una città universitaria? Certo, l'Università cittadina è ancora giovane: ma, in tutta onestà intellettuale, possiamo affermare che la città sia cresciuta insieme ad essa?».
Università più Città Alta, può essere la scommessa vincente di Bergamo?
«Sì, ma si deve cambiare registro: da una parte l'Università e la città debbono imparare a "vivere insieme", dall'altra bisogna che Città Alta non sia considerata un corpo a margine della città vera, il luogo d'elezione dove andare per avvenimenti festivi, la medaglietta da mostrare. Deve invece tornare ad essere un luogo, prezioso, in cui il quotidiano risulti possibile (ecco che torna prepotente il problema della mobilità verso e da Città Alta!), dove si possa lavorare, non solo in funzione di eventuali turismi di massa. L'oro di Bergamo: la sua gente, la forza territoriale del lavoro, la manualità e l'esperienza, la fatica e il coraggio, l'operosità artigianale e l'ardita innovazione, lo studio e la ricerca. Il prisma a tante facce che è la cultura di una città: è questo il capitale d'investimento sul quale scommettere».
Franco Cattaneo
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