«Ho sentito la morte vicina, ma così
ho superato il trauma dell’incidente»

«Una sera in moto la mia vita è cambiata» racconta Ovidio Pedrali. «Ora scrivo e dipingo, e trovo nuovi modi di aiutare».

C’è una storia zen in cui un uomo, inseguito da una tigre, si ritrova sull’orlo di un precipizio e, sul punto di cadere, si aggrappa al ramo sporgente di un albero. Nel momento più grave di pericolo scorge sulla parete rocciosa una fragola. Tenendosi con una sola mano allunga l’altra per raccoglierla, la mangia e pensa: è il frutto più dolce che abbia mai assaggiato.

Ovidio Pedrali di Pontoglio, 59 anni, sulla sedia a rotelle da cinque, dopo un gravissimo incidente in moto, racconta così l’inizio del suo percorso di rinascita: «Ho deciso di impegnarmi al massimo per vivere la vita che mi è stata data - sorride - come l’uomo di questo aneddoto ho scelto anch’io di raccogliere la fragola». Ha scritto un libro, «Parto volando, torno planando» (Albatros), ne ha in cantiere un altro e da un anno e mezzo ha incominciato anche a dipingere. L’arte è stata per lui la migliore medicina e si sta preparando per la prima mostra a Paratico, da allestire quando sarà finita l’emergenza per la pandemia.

«Ora - racconta - sento la responsabilità di aiutare altre persone che si trovano nella mia stessa situazione».

Nelle ultime settimane ha dovuto fare i conti anche con il coronavirus: «Sono uscito per la prima volta dopo due mesi, sono andato a trovare i miei nipoti, e purtroppo pochi giorni dopo mi è salita la febbre. Fortunatamente mi è passato curandomi a casa, non c’è stato bisogno di ricoverarmi in ospedale, anche se soffro ancora di forte debolezza e debilitazione». Il suo paese è stato colpito con durezza dalla pandemia: «Molti miei parenti si sono ammalati, qualcuno gravemente. Ho perso alcuni cari amici. Un periodo difficile per tutti, ci ha già lasciato segni profondi».

Ovidio lavorava come chimico industriale in un’azienda di Chiuduno: «Mi occupavo di resina e metacrilato, inventavo i colori per accessori, semilavorati e bigiotteria per grandi case di moda come Louis Vuitton e Chanel, imitando i materiali naturali. Mi appassionava molto il mio lavoro, in cui avevo già incominciato a mettere a frutto la mia creatività». In una fredda sera di cinque anni fa, il 9 dicembre del 2015, Ovidio stava tornando a casa in moto: «Procedevo a velocità ridotta, perché c’era una nebbia fittissima. Ricordo il momento dell’impatto: è arrivato all’improvviso, senza che potessi in qualche modo prepararmi e attutire la caduta. Sono finito contro lo spartitraffico, ho fatto un volo, mi sono ritrovato a terra». Non si è reso conto subito di che cosa fosse accaduto: «Sono arrivati i soccorsi e per qualche minuto sono rimasto cosciente, con l’aiuto di un paramedico ho telefonato a mia moglie Elisabetta. Mi ricordo che le ho detto che dovevo salutarla, perché le forze mi stavano abbandonando, poi sono scivolato nel nulla. In quel momento mi sono sentito molto vicino alla morte, ne avvertivo i segni caratteristici. Sentivo freddo e mi sono detto che stavo per raggiungere mio padre e mio fratello, morti in circostanze tragiche qualche anno prima. Ero in pace con me stesso, ma sono stato felice quando mi sono risvegliato in ospedale: ero stupito e mi sono sentito miracolato».

Aveva subito una lesione gravissima alla colonna vertebrale e lo avevano trasportato all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo in condizioni disperate: «Hanno detto a mia moglie che avrebbero cercato di salvarmi la vita e così hanno fatto: mi hanno sottoposto a un intervento complesso e delicato di ricostruzione della colonna». Quando si è svegliato dal coma, si è ritrovato intubato e bloccato a letto: «Non potevo parlare ma interrogavo mia moglie con lo sguardo, volevo sapere se sarei rimasto infermo. Lei ovviamente, senza sbilanciarsi, si limitava a dirmi che i medici mi avrebbero curato bene».

A quel punto Ovidio aveva già capito che la sua vita sarebbe cambiata radicalmente: «Ho smesso di preoccuparmi del futuro, ho cercato di concentrarmi sul presente e di impegnarmi al massimo per stare meglio, senza piangermi addosso, mettendocela tutta».

Quando le sue condizioni si sono stabilizzate, Ovidio è stato trasferito al Centro di riabilitazione specialistica di Mozzo, dove è rimasto per nove mesi. Nel suo percorso ci sono stati momenti molto bui: «A un certo punto avvertivo fastidio e dolore e all’inizio non ci avevo dato molto peso, ritenendo che fosse colpa di un’ernia inguinale di cui soffrivo da tempo. Dopo alcuni esami, invece, mi hanno detto che poteva trattarsi di un tumore e mi hanno operato di nuovo. L’esame istologico, fortunatamente, ha dato un esito negativo. Nel frattempo, però, ero caduto in depressione, non riuscivo più a mangiare. Ho perso venti chili, in qualche momento ho anche pensato di farla finita. Poi mi sono reso conto che dovevo trovare il coraggio di reagire. Non sono mai stato un fervido credente, ma in quel momento ho riscoperto la forza della fede e mi sono detto che Dio forse avrebbe accettato comunque le mie preghiere. Pian piano ho ricominciato a migliorare, ho ritrovato la voglia di vivere. Sono ripartito da gesti semplici, come un sorriso. Ho cercato di manifestare un atteggiamento positivo e di fiducia nei confronti di medici e infermieri che si prendevano cura di me. Così ho capito che la vita peggiora se le tieni il muso. La gioia, invece, è contagiosa e si moltiplica».

Ha imparato a guardare il lato positivo: «Solo uno su cento si salva dopo un incidente come il mio. Avrei potuto restare in coma per sempre o ritrovarmi paralizzato dal collo in giù. Non è stato così. Ho seguito le terapie con impegno, pazienza, tenacia e coraggio sono riuscito a recuperare parzialmente la mobilità. Sono tetraplegico, trascorro la maggior parte della giornata su una sedia a rotelle, ma riesco ad alzarmi con alcuni ausili e ogni giorno mi alleno camminando per piccoli tratti sul tapis roulant. Prima dell’incidente mi preoccupavo molto della mia forma fisica, dopo ho usato gli esercizi che avevo appreso, comprese le tecniche di yoga e di rilassamento, per accompagnare e sostenere le terapie riabilitative».

È stato durante il soggiorno a Mozzo che gli specialisti lo hanno incoraggiato a coltivare le sue passioni, come la scrittura e il disegno: «Sono entrambi esercizi che aiutano a sviluppare la manualità e in effetti hanno contribuito molto al mio recupero, anche se fatico ancora a muovere le mani. Ho subito un nuovo intervento l’anno scorso in un centro specializzato di Firenze e poi ho trascorso un altro mese a Mozzo, i miglioramenti continuano».

È nato così il suo romanzo, simbolo di questo processo di rinascita: «L’ho considerato un modo per rielaborare la mia esperienza e per donare ciò che ho imparato, nella speranza che possa aiutare qualcun altro. È una specie di vademecum per chi nel viaggio della vita pensa di essere arrivato su un binario morto. Non siamo sempre consapevoli di quante risorse abbiamo, nei momenti difficili dobbiamo avere la forza di scavare e di scoprirle. Davanti a un ostacolo bisogna imparare a cambiare prospettiva per riuscire ad aggirarlo e procedere ugualmente. Ci sono tanti momenti in cui nella vita, per motivi diversi, ci si trova costretti a fare tabula rasa e ricominciare da capo: dopo una malattia, dopo un lutto o dopo un incidente come il mio. Ho sperimentato sulla mia pelle che accettare la realtà, sgombrando il campo dai pensieri negativi, è il modo più semplice per essere felici».

La pittura è una continua esplorazione per Ovidio: «Non c’è gioia più grande di avere un orizzonte in costante cambiamento, di trovarsi ogni giorno sotto un sole nuovo e diverso». Ha tentato con alcune tecniche, incominciando dall’acquerello, fino a trovare uno strumento ideale nei colori acrilici: «Si stendono e si asciugano velocemente - racconta -. Ogni tanto mi capita ancora di avere dolori con improvvise fitte alle mani tanto da dover lasciare cadere di colpo i pennelli. Se usassi l’olio sarebbe un disastro. Così invece mi immergo nel mio lavoro e le ore passano senza che me ne accorga». Dall’opera delle sue mani nascono scorci inediti, sguardi, case, fiori, alberi, arcobaleni, immagini piene di energia. Ha sistemato un angolo in casa dove può lavorare tranquillo, e per imparare si è affidato ai grandi pittori, passando con disinvoltura da ritratti, paesaggi e figure alle composizioni astratte: «Sono quelle che preferisco - osserva -, perché mi lasciano più libero di esprimere emozioni. Dipingo per scacciare i cattivi pensieri, per sgombrare la testa dalle paturnie e dai momenti di tristezza, perché le ferite del corpo pian piano si rimarginano, ma le cicatrici restano e bisogna imparare a conviverci».

Coltivando le sue passioni Ovidio ha iniziato con intensità una seconda vita: «Non riesco più a lavorare, purtroppo, ma posso continuare a vivere per chi mi vuole bene, come mia moglie e mio figlio Paolo. Posso leggere i classici, nei quali trovo sempre nuovi spunti, scrivere, dipingere, trovare modi diversi per aiutare gli altri. Prima dell’incidente ero impegnato attivamente nel sociale. Ora non posso più spostarmi autonomamente ma cerco comunque di dare una mano e di trasmettere forza a chi ne ha bisogno. A Mozzo ho incontrato tanti giovani che si sono trovati nella mia situazione senza neanche aver potuto assaggiare la vita, il loro destino mi sembra ancora più amaro del mio, cerco per quanto posso di alleggerirlo. Le persone che ho aiutato mi sono state molto vicine nel momento del bisogno, posso dire di aver ricevuto da loro molto più di quanto abbia dato».

Ovidio con determinazione ha deciso di fare tesoro della frase di Goethe che ha inserito nel suo libro: «Ci sono solo due classi in questo mondo, i vivi e i morti. Per chi coltiva lo spirito, nulla è impossibile». Quando pensa al futuro vede sfide sempre nuove: «Ogni notte cerco nel cielo la luce di una stella che mi illumini il cammino, poi guardo sempre avanti».

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