L'Editoriale
Domenica 15 Novembre 2015
Vittime e carnefici
della stessa terra
«Troppo sangue, non sappiamo più dove metterlo». I parigini diventano invisibili nell’alba che segue il massacro. I pochi che si trovano per strada vanno di fretta. E l’unica persona che accetta il microfono sotto il naso risponde come se fosse dentro una scena del MacBeth. Troppo sangue: o farsene ossessionare o provare a lavarlo. E dalle notizie, dagli sms, dalle mail, dai post si coglie la ferrea volontà di reagire subito. In due modi contrapposti.
C’è chi cerca gli amici al telefono e sui social per rassicurarli e sentirsi rassicurato. E chi, in preda a un eccesso artificiale di rimozione, organizza incontri, cene, iniziative all’aperto. Anche veglie, ma con discrezione per non turbare la laicité (in via di fallimento). E lo fa per un motivo ancestrale: non cedere alla paura. Gli amici rintracciati al telefono ti spiegano che stanno bene, che avevano un conoscente allo stadio o vicino al teatro e soprattutto che «pensavamo di avere già dato».
L’incubo di gennaio torna come un tradimento ulteriore, sembrava che Charlie Hebdo fosse lo scontro finale, il momento più violento e frontale d’un processo di difficile, ma inevitabile condivisione. E invece era l’antipasto. «È solo l’inizio della tempesta», sta scritto nella rivendicazione dei tagliagole dell’Isis. E l’incipit in francese «Ce n’est qu’un début» ha un che di grottesco e beffardo nei confronti della cultura dell’embrassons nous derivata da quel Maggio ribelle del 1968. Centoventotto morti, duecento feriti, l’11 Settembre dell’Europa: i numeri sono questi. Ma i numeri e i nomi dei primi due terroristi catturati ieri in Belgio ci raccontano un’altra storia: un siriano e un francese. E la certezza da parte di tutte le polizie del continente (e dell’intelligence americana e israeliana) che Parigi sia diventata il ventre molle della sicurezza dell’Occidente.
«Pensavamo di avere già dato». Una replica non avrebbe avuto senso se non fosse per un motivo persino elementare: fra i 6 milioni di musulmani di Francia crescono le nuove leve del fondamentalismo. Come spesso capita, il male è in casa. Non si tratta solo di sbandati, di miserabili alla deriva, di fuggiaschi di rientro dalla Siria. L’azione nel cuore di Parigi è stata pianificata, organizzata, realizzata in Francia da commando militari, cellule coordinate con supporti logistici, strategie, coperture, covi. Come avere le Brigate Rosse lungo la Senna con una potenza di persuasione e di fuoco incomparabilmente più grandi. E allora sarebbe interessante capire quali sono le molle che fanno scattare la scelta del terrore, la violenza fino al suicidio religioso. Perché è impensabile (tranne che per qualche benaltrista in cachemire) appaiare il pur palpabile disagio delle ormai terze generazioni delle banlieues francesi alla disperazione di nascere a Gaza o a Mosul. C’è qualcosa che somiglia piuttosto al destino dei kamikaze giapponesi della seconda guerra mondiale. Ciascuno di loro trascinava con sè gli altri. E più ne morivano (furono 2.000), più i sopravvissuti - vergognandosi della loro istintiva voglia di vivere - erano ansiosi di seguirli.
Pensieri impressionisti percorrono questa giornata grigia e ci riportano lì, a Place de la République, dove in gennaio i capi di Stato del mondo avevano detto no al terrorismo tenendosi inutilmente per mano. Se fosse servito a qualcosa, oggi 128 innocenti non sarebbero coperti da lenzuoli bianchi. L’Isis ha dichiarato guerra al pianeta. La risposta sta nel non cedere alla paura. Ma anche nell’andare oltre la solidarietà di facciata e il «je suis qualcosa» che fa tanto chic nei salotti virtuali.
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