L'Editoriale
Sabato 26 Marzo 2016
Vincere il terrore
usando i pentiti
Il metodo italiano nella lotta al terrorismo, in particolare il pentitismo, può essere utile contro il jihadismo di oggi che insanguina l’Europa? Qualche voce se l’è chiesto, specie in relazione alle prime ammissioni dell’ultimo catturato per la strage di Parigi e al deficit di comunicazione fra le varie Intelligence. Parliamo evidentemente del mondo di ieri e di un’altra epoca e talune analogie non vanno al di là di una certa suggestione. Una cosa, però, si può dire: il pentitismo ha funzionato. Efficace e risolutivo.
Qualcosa del genere s’era già visto nell’esperienza inglese contro l’Ira, ma è nel nostro Paese che quella carta è stata giocata in modo sistematico. Se lo ricorda anche Bergamo con pentiti eccellenti e con il processone dei primi anni ’80 a Prima linea. La legislazione di vantaggio a chi collaborava con la Giustizia s’è rivelata utile nell’Italia di allora e contro quel preciso terrorismo: di estrazione marxista (Brigate rosse e Prima linea) e neofascista (lo stragismo bombarolo). Un partito armato di fine ‘900 dentro il perimetro nazionale, per quanto non siano mancati i collegamenti internazionali mai del tutto chiariti, le incursioni del terrorismo palestinese e benché anche l’Italia sia stata parte delle indagini sull’attentato a Papa Wojtyla. A dimostrazione che, ieri come oggi, quel che inizia in Medio Oriente continua poi in Europa. L’utilizzo del pentitismo va letto in quel contesto ben definito: un fenomeno che per ampiezza, profondità, durata e scia di sangue non ha avuto uguali nel mondo occidentale.
Gli anni di piombo italiani, la notte della Repubblica, iniziano nel ’69 con la strage di piazza Fontana a Milano e si concludono, salvo qualche tragico colpo di coda, nella prima metà degli anni ’80. Sotto il piombo finiscono magistrati, forze dell’ordine, servitori dello Stato, giornalisti. Poi le stragi alla questura di Milano, alla stazione di Bologna, all’Italicus. Il pentitismo è stato impiegato quando l’eversione aveva raggiunto lo stadio di terrorismo diffuso, dopo il rapimento e l’assassinio dello statista Dc Aldo Moro, nel ’78, il punto più drammatico dell’attacco al cuore dello Stato. Non è stato un passaggio indolore, perché si trattava di assegnare sconti di pena anche a chi fino al giorno prima aveva ucciso. Bisognava tener conto del rispetto delle vittime, della dignità delle istituzioni.
Obiezioni legittime e necessarie, relative alla questione morale: fino a che punto la dissociazione dalla lotta armata poteva ritenersi un pentimento vero e proprio e non un esercizio strumentale e insincero? Ma il sistema, che poneva l’accento sulla concretezza, in non pochi casi è stata la chiave di volta per generare nei terroristi un senso di ripulsa verso la lotta armata. Ha consentito di frantumare certezze radicali e alle istituzioni di conoscere i propri nemici, di penetrare miserie umane piccolo borghesi fattesi criminali. Ha permesso di smontare una struttura a compartimenti stagni come le Br, di isolare la lotta armata dall’area fiancheggiatrice: le fabbriche, le università, qualche salotto radicalchic che civettava con la piazza sovversiva.
L’altra categoria era quella dei dissociati, con sconti di pena più attenuati: un filone confinato in una certa ambiguità. Il primo grande pentito Patrizio Peci, catturato nell’80, pagherà con la vita del fratello ucciso per vendetta. Quelle norme vanno lette in parallelo con processi investigativi che, dopo le iniziali improvvisazioni, maturano verso una maggiore efficienza: nascono i pool di magistrati e carabinieri, l’azione di contrasto viene centralizzata, i dossier riunificati, le informazioni circolano.
Un nome su tutti: il generale Dalla Chiesa. La formula che ha segnato un prima e un dopo è stata quindi duplice, tenendosi reciprocamente: incentivare le confessioni e istituire pool investigativi. Tant’è che si replicherà nell’antimafia con un modulo più strutturato e con la figura in senso proprio dei collaboratori di giustizia, il cui primo capitolo è scritto da Tommaso Buscetta con la confessione al giudice Falcone. Questa è stata l’evoluzione dell’antiterrorismo nell’Italia repubblicana mai così sotto attacco. Quella dei terroristi che comunque, come avvertiva il giornalista Walter Tobagi prima di essere ucciso, «non sono samurai invincibili». Speriamo sia così anche nell’Europa 2016.
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