Usa, il malessere
della democrazia

Il voto di martedì in America è visto più con preoccupazione che con interesse. Meglio: la curiosità è direttamente proporzionale ai timori di un successo di Donald Trump, il ciuffo paglierino più tristemente noto degli Usa.

C’è un precedente di minore intensità e riguarda Reagan, che per la sensibilità media europea era ritenuto un cowboy guerrafondaio, ma i suoi due mandati negli anni ’80 smentirono quel giudizio sommario.

In altri periodi uno eccentrico e «di pancia» come Trump sarebbe stato improbabile, ma già il fatto che sia arrivato sin qui è comunque il segno di tempi inquieti e difficili da capire dove ci conducano, capaci però di dispensare imprevisti e di rendere praticabile l’impensabile come è avvenuto con la Brexit. Tuttavia il condottiero del ceto medio bianco non è nato sotto un cavolo, mentre il suo comportamento volgare e irrispettoso non andrebbe contrastato da posizioni elitarie o di sufficienza. Questo chiassoso fenomeno, infatti, visto almeno dal versante europeo, ha a che fare con la fragilità di democrazie malate, compresa quella di una nazione «indispensabile» come l’America. E non è un caso – ha osservato il gesuita Giacomo Costa su «Aggiornamenti sociali» – che la democrazia entri in crisi in un mondo in cui le disuguaglianze sono in aumento sia a livello globale sia all’interno dei singoli Stati. C’è un senso diffuso d’ingiustizia fra i ceti popolari, che si sentono quasi espropriati del controllo sul proprio futuro: un sentimento in cerca d’autore.

Questa specie di Internazionale populista, dei movimenti anti sistema, è un sintomo della grande spaccatura che attraversa le società occidentali, affrontata tardivamente dalle culture politiche tradizionali che hanno perso l’anima popolare. C’è stato un tempo in cui la passione civile impediva di ritenere ineluttabile l’arretramento della giustizia sociale. Preoccupano, quindi, ma non stupiscono le risposte sbagliate dei populisti dopo anni di impoverimento e di declassamento del ceto medio, quel corpaccione divenuto malmostoso e che, se appartiene al sogno americano, anche da noi rappresenta l’ala marciante del tessuto sociale. Mai come in questo periodo, la cui cifra è una virata nazionalista e di chiusura, concetti come il malessere delle democrazie rappresentative, i pochi e i tanti, l’élite e il popolo, la sovranità popolare, il basso e l’alto della società sono entrati nel dibattito pubblico. Va da sé che sia da noi sia negli Stati Uniti (e a prescindere dai risultati di martedì) l’agenda è dettata dalle forze anti establishment con gli altri che inseguono lo scontento popolare, smarriti e incapaci di continuare a credere nella forza delle proprie idee.

Non sorprende che Hillary Clinton, incalzata da destra e da sinistra, freni sui commerci internazionali, la caratteristica delle società aperte, e del resto proprio i dividenti ineguali della globalizzazione, con una gerarchia fatta di vincitori e vinti, smentiscono la narrazione unilaterale e ottimista degli ambienti che contano e che dagli anni ’90 ha fatto senso comune, promettendo benessere per tutti. Il passo dei pentiti della globalizzazione verso una correzione di rotta, un approccio più guardingo ai mercati appare così obbligato, purché ci sia la consapevolezza delle insidie del nazionalismo economico dietro l’angolo e il peso negativo dei suoi precedenti storici: i muri per le merci dopo quelli per le persone sarebbero il ritorno ad un passato che non promette nulla di buono.

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