L'Editoriale
Lunedì 04 Settembre 2017
Università, qualità
e numero chiuso
Università a «numero chiuso» o università aperte a tutti? Dopo la discutibile sentenza del Tar Lazio con la quale sono state bloccate le prove selettive di ingresso alle facoltà umanistiche della Statale di Milano, il problema emerge in altre università e il dibattito su cause e rimedi si allarga. Circostanza non soltanto prevedibile ma persino auspicabile, poiché la questione della qualità dell’istruzione superiore è innegabilmente di enorme rilievo. Il punto dal quale partire è la carenza di progettualità politica adeguata alla complessità del problema.
Da decenni il livello dell’istruzione secondaria e di quella universitaria è andato pericolosamente declinando. Non mancano, ovviamente, eccezioni rilevanti, ma nel complesso le riforme con le quali si sono ridisegnati cicli e criteri scolastici e universitari non hanno dato buona prova. Vale per lo sdoppiamento dei livelli di laurea (con il famigerato 3+2) e ancor più per la rovinosa e slabbrata riforma della «Buona scuola». Sulla questione converrebbe che fossero messi da parte toni esagitati e si provasse, per una volta, a valersi di argomentazioni basate sulla competenza in materia e a mostrare la volontà effettiva di arrivare a soluzioni equilibrate. Per evitare che – in un terreno sul quale si gioca una partita decisiva per il Paese – tutto si riduca all’ennesimo scontro tra Guelfi e Ghibellini.
Partire dai fatti può forse aiutare a dipanare la matassa intricata delle contrapposte opinioni. In Italia il numero dei laureati è più basso che nella maggior parte dei Paesi avanzati. Nel contempo, la quota di studenti fuori corso è particolarmente alta con fenomeni di dispersione piuttosto preoccupanti. In più, vi è un elemento peculiare, costituito dalla percentuale (non esigua) di non giovani – che lavorano nelle strutture pubbliche – i quali si iscrivono all’università prevalentemente per conseguire un titolo utile all’avanzamento in carriera. Un panorama composito al quale la politica ha prestato poca attenzione, contribuendo a uno stato di fatto nel quale convivono la scarsa retribuzione dei docenti e la scandalosa prassi del baronaggio universitario; rigidità dei programmi (spesso obsoleti e lontani dalla realtà) e criteri di selezione raramente fondati sul merito. Nelle università come nei licei - è noto – lavorano gomito a gomito docenti di altissima qualità e persone assolutamente inadeguate per carenza di competenza e/o di attitudine all’insegnamento.
Per quanto riguarda la scelta tra numero programmato e accesso libero occorre tener presente quattro elementi: qualità dei prodotti formativi, qualità dei docenti, qualità degli studenti, valore reale dei titoli di studio. L’incrocio dei fattori è talmente complesso da non poter essere affrontato qui. Valgano soltanto due esempi in forma di domanda retorica. Vogliamo un laureato in medicina che non sappia fare una diagnosi o non riesca a decifrare i risultati di esami di laboratorio? Vogliamo un laureato in giurisprudenza che non sia in grado di scrivere una memoria difensiva o di buttar giù un articolato di legge? Evidentemente, per avere – in qualunque disciplina – giovani preparati il numero chiuso non può essere un tabù. E forse dovremmo cominciare a guardare il problema dall’altro lato, per venir fuori dal dilemma secco: in realtà, la selezione è, sempre e comunque, un elemento che fa parte delle vicende umane. Non si vede perché non dovrebbe valere per l’ingresso ai livelli più alti dell’istruzione. Quindi, selezione. Naturalmente, va compiuta una riflessione accurata per studiare e trovare soluzioni adatte. Oltre al risultato dei test d’ingresso all’università, dovrebbe essere valutato almeno il voto di maturità (meglio ancora il percorso nel quinquennio di liceo). Ciò rinvia alla qualità dei licei e alla serietà degli studi che vi si compiono, elementi sui quali la difformità è molto forte. Con altri accorgimenti utili si potrebbe pervenire a forme di selezione sufficientemente obiettive, senza pretesa di una oggettività totale, che non è ipotizzabile.
Sociologi e filosofi mettono in rilievo come la contemporaneità esiga una società della conoscenza, senza la quale non potremo fronteggiare i problemi immani derivanti dalla globalizzazione. La conoscenza si acquisisce per molte vie. L’istruzione è una di essa, non sempre la più importante, ma comunque sempre imprescindibile. Ciò implica che i nostri futuri laureati dovranno sì possedere competenze specialistiche, ma dovranno essere anche dotati di elevata capacità critica e di adeguata maturità intellettuale. Non robot, ma persone pensanti.
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