L'Editoriale
Martedì 14 Novembre 2017
Uniti ma divisi
Sempre il solito pd
I democratici almeno un risultato con la riunione della direzione lo hanno ottenuto: sono riusciti a non dividersi, a evitare che i giornali oggi titolino: «Pd spaccato». Questo effettivamente non è accaduto, e quasi tutti hanno votato a favore del discorso di Renzi, ma sul resto i problemi non si sono spostati di un solo millimetro. Convocata dopo il disastro elettorale del voto siciliano, la direzione del Pd doveva affrontare lo scottante argomento: come facciamo a mettere in piedi una coalizione che ci aiuti a non ripetere il flop siculo? E poi: come raduniamo un po’ di alleati che nei collegi uninominali ci permettano di conquistare qualche parlamentare anche al Nord, dove il centrodestra leghista potrebbe fare l’asso pigliatutto, e al Sud, dove la concorrenza grillina è fortissima?
L’ostacolo numero uno al raggiungimento di questi obiettivi, e cioè il segretario Matteo Renzi, quello che gli altri partitelli di sinistra vorrebbero vedere polverizzato per ricominciare almeno a parlarsi, ha detto che lui è «aperto agli altri» – anche se non «farà abiure» – e che comunque «non mette paletti», cioè non dice no a nessuno: né a Bersani né a Fratoianni, tantomeno a Pisapia, e nemmeno ai fedeli alleati centristi senza dimenticare i radicali, i socialisti, gli ambientalisti, gli ex montiani e via dividendo le molecole.
Per forza, che non dice no a nessuno: di quei voti, per quanto pochi, il Pd ha bisogno come del pane. E siccome tutti lo sanno, fanno gli schizzinosi e tirano sul prezzo. Basta ascoltare Bersani: «Quelle di Matteo sono chiacchiere, bisogna vedere i fatti».
E i fatti quali sarebbero? L’«abiura» giustappunto, cioè ammettere che in questi tre anni il Pd renziano ha sbagliato pressoché tutto (dal Jobs Act alla buona scuola alla linea sui migranti). Di conseguenza il maggior autore di tutti questi «errori», cioè Renzi, dovrebbe fare fagotto e sparire nel natio contado fiorentino. Ovvio che Matteo è disposto a concedere molte cose, ma non la sua pelle. Quindi – su questo effettivamente l’ennesima metafora bersaniana ci azzecca – «le chiacchiere stanno a zero». Allora che si fa?
L’ipotesi più probabile è che davvero il Pd vada da solo, o meglio: con quei pochi alleati più sopra elencati, e che dall’altra parte si metta insieme un piccolo esercito «di sinistra» che potrebbe prendere un po’ di voti nella quota proporzionale.
Quanto a Pisapia, nessuno ha capito cosa voglia davvero fare. Bisogna che si decida almeno prima delle elezioni, diceva ieri con ferocia da vecchia sezione Pci il vispo ottantenne Fabio Mussi, sparatissimo nella costruzione del «quarto polo» schiaccia-Renzi. A forza di tentennare, il rischio che corre l’ex sindaco di Milano è di sparire dal radar per assenza di compagni di strada: la Boldrini, che pure starebbe con lui nel «Campo progressista», ha detto chiaro e tondo che non vuole patti col Pd ed è probabile che se ne vada con gli ex vendoliani come Piero Grasso.
Gira tuttavia una voce, non si sa quanto veritiera, e cioè che a Pisapia piacerebbe passare la patata bollente della «riunificazione» delle tante anime e animelle della sinistra nientedimeno che a Romano Prodi. Il Professore potrebbe essere lusingato da un coro unanime (?) di gente che lo implorasse di tornare in campo. Ma nessuno meglio di lui – che porta sulle spalle le cicatrici di ben due accoltellamenti collettivi – sa quanto sia difficile far andare d’accordo tutti i generali della sinistra, benché impauriti dall’avanzata del centrodestra e dalla minaccia grillina. L’altro padre nobile, Veltroni, non sembra aver voglia di andare oltre il rimbrotto a tutte le correnti progressiste: «Vi pentirete di quello che state facendo».
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