Un carcere più umano
nello sguardo dei bimbi

Bambini dietro le sbarre. Succede anche a Bergamo, in via Gleno, dove ogni mese almeno 300 minori varcano i cancelli della Casa circondariale per incontrare la mamma o il papà detenuti. Occuparsi di questi bambini è un compito cruciale della società civile per tre ragioni. Innanzitutto per i piccoli, perché il loro diritto di essere figli va tutelato prima di ogni altra cosa. Poi per i loro genitori, che sono sì detenuti, ma sono anche padri e madri, nonni e nonne, fratelli e sorelle. Infine per tutti noi, perché un carcere più umano è il migliore rimedio alla recidiva, la più grave piaga del nostro sistema penitenziario.

Un deficit profondo e strutturale del quale incredibilmente non esistono statistiche ufficiali che possano dimostrarne la portata. Anche se il conto è presto fatto: attualmente la popolazione carceraria è di circa 54 mila detenuti. Gran parte di costoro fa parte di un gruppo più ampio di circa 200 mila persone, il cui orizzonte di vita si sposta, con ritmo più o meno costante, dalla strada alla cella, passando saltuariamente per qualche presidio sociale. Il risultato è che di dieci detenuti che escono di prigione, sette torneranno dentro.

È il meccanismo perverso, noto come «porta girevole», che si innesca nei territori della grave marginalità e che costituisce storicamente il principale bacino di alimentazione delle nostre carceri. Lo denunciano da anni le associazioni di settore come Antigone, ma lo ha ribadito recentemente dalle colonne del Corriere un paladino del pensiero liberale come Ernesto Galli della Loggia: «Solo gli extracomunitari, gli infimi spacciatori, gli emarginati a vario titolo, gli appartenenti alle classi povere, popolano le nostre galere».

Come rompere questo meccanismo? Senz’altro uno degli antidoti è il lavoro. Il detenuto che lavora e che viene reinserito in società, scontata la pena, con degli adeguati strumenti di autonomia, ha una probabilità di delinquere di nuovo inferiore al 10 per cento.

L’altro antidoto è la famiglia. Lo sguardo dei bambini, scrivono i promotori della rete Bambinisenzasbarre, che si occupa della permanenza dei minori nelle strutture detentive e che ora è in cerca di un piccolo contributo per proseguire l’attività, «può trasformare e umanizzare il carcere, che è costretto a prendere in considerazione la loro presenza, se pure paradossale, e quindi attrezzarsi per accoglierli».

Ma lo sguardo dei bambini può anche trasformare i genitori. Anche L’Eco lo ha documentato più volte durante le feste per i genitori e per i nonni che, ormai regolarmente, la Casa circondariale di via Gleno organizza nella palestra dell’istituto, aprendo le porte ai più piccoli. Momenti di convivialità dove si respira, non fosse per il muro di cinta e le garitte di guardia, un’atmosfera di gioiosa normalità. E dove i figli possono finalmente guardare negli occhi i loro padri e le loro madri e vederli – e riconoscerli – finalmente, come genitori. Farsi carico di quello sguardo innocente e colmo di futuro è probabilmente la migliore motivazione per evitare di ricascarci di nuovo.

E per gli irriducibili seguaci della filosofia del «chiudiamoli dentro e buttiamo via la chiave» ricordiamo due semplici cifre: la permanenza dei detenuti che fanno rientro in cella costa ogni anno tra i 3 e i 4 miliardi di euro l’anno, mentre ogni punto di recidiva abbattuto fa risparmiare allo Stato 40 milioni l’anno. Se non bastasse il diritto, ma speriamo che basti, risparmiamoci almeno un inutile spreco.

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