Turchia e Olanda
l’Europa rischia

La «guerra dei diplomatici» che è scoppiata in Germania, è dilagata in Olanda e sta pian piano opponendo la Turchia a un vasto fronte di Paesi europei (la Danimarca ha chiesto al premier turco di rinviare la visita, l’Austria ha decretato il blocco per i ministri turchi), ha due facce come la Luna. Quella turca è ben visibile. Il 16 aprile si terrà un referendum su una proposta di riforma costituzionale voluta da Recep Erdogan ma non sostenuta dal Parlamento, che ha fatto mancare il quorum (due terzi dei 550 seggi) per approvarla senza consultazione popolare.

Proseguendo nella strategia varata dopo il golpe del luglio 2016, Erdogan cerca di trasformare la Turchia in una Repubblica presidenziale, abolendo la figura del primo ministro (sostituito da un vicepresidente), diluendo le legislature (la cui durata passerebbe da 4 a 5 anni) e attribuendo al Presidente la facoltà di scegliere e rimuovere i ministri. Tutti i viaggi dei membri dell’attuale Governo, quelli cioè che hanno provocato il trambusto, avevano lo scopo di propagandare la riforma presso i turchi che vivono in Europa (2,6 milioni in Germania, 350 mila in Olanda, per dire) ma hanno diritto di voto in Turchia. Una necessità, per Erdogan, perché in Parlamento la convocazione del referendum è passata per soli 9 voti. In altre parole: lui vuole la consacrazione, non una vittoria risicata, quindi ogni voto è prezioso.

Se tutto questo è chiaro, ancor più evidente è che l’occasione di far passare la Turchia per un Paese perseguitato dall’Europa e di ergersi a difensore della patria è, per il leader turco, una splendida occasione per incrementare i consensi. Erdogan, grazie a questa crisi, riuscirà di certo a prendere più voti di quanti sperava. Ed è qui che inizia il lato oscuro della luna. Perché Germania, Olanda e gli altri sono andati a cacciarsi in un simile pasticcio? Qualcuno dice che ciò avviene perché Erdogan non è più un leader democratico. Anzi: dopo aver sventato il golpe, ha varato una repressione che ha portato in carcere migliaia di persone e ha decimato intere categorie: i militari, i magistrati, gli insegnanti, i giornalisti. Tutto vero. Ma allora perché gli stessi Paesi, e la Ue in generale, sono ancora ben lieti di versare 3 miliardi l’anno allo stesso Erdogan purché si tenga i profughi siriani? Ha senso fare affari con i tiranni e intanto fargli la morale?

Chiaro che no. E infatti le ragioni sono più banali. L’Olanda affronta oggi elezioni politiche in cui si prevede l’avanzata del Partito per la libertà, xenofobo, anti-islamico ed euro-scettico, guidato da Geert Wilders. Permettere che politici stranieri (musulmani, per di più) arringassero piazze piene di militanti sarebbe stato per Wilders un grosso regalo. Così il primo ministro (e leader del Partito per la libertà e la democrazia, di centro-destra ed europeista) Mark Rutte ha pensato di cavalcare per primo il sentimento xenofobo, impendendo ai ministri turchi loro di entrare nel Paese o, peggio, trattando la ministra della Famiglia Fatma Betul Sayan Kaya come un borseggiatore arrestato al mercato. Più o meno analoga la situazione in Germania. Angela Merkel ha preso brutte scoppole nelle elezioni locali e il 24 settembre i tedeschi voteranno per rinnovare il Parlamento. Anche la Cancelliera teme l’onda populista e, pur con più stile e astuzia, non si è comportata diversamente da Rutte. Il tutto, comunque, conferma il momentaccio della Ue. Incapace di tracciare una linea comune, come il caso della Turchia richiederebbe. E come sempre in balìa dei piccoli o grandi interessi di bottega dei singoli Paesi.

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