L'Editoriale
Sabato 08 Aprile 2017
Trump non spingerà
gli Usa in guerra
È troppo presto per dire quali conseguenze avrà a medio termine l’inatteso lancio di 59 missili americani contro la base siriana da cui, secondo le osservazioni satellitari, è partito l’attacco al Sarin contro la cittadina di Khan Sheikun. Potrebbe trattarsi di in un’azione dimostrativa una tantum, determinata dalla sincera indignazione di Trump e dell’opinione pubblica americana per il nuovo, barbaro ricorso alle armi chimiche da parte del regime siriano, ma che non influirà sulla determinazione degli Stati Uniti di tenersi fuori dalla guerra civile e concentrare i suoi sforzi soprattutto sulla lotta contro l’Isis.
Ma potrebbe anche essere il detonatore per una clamorosa svolta nella politica estera della nuova amministrazione, con la riesumazione della volontà di liberarsi di Assad, la rinuncia a qualsiasi collaborazione con la Russia per il raggiungimento di una soluzione diplomatica e un rimescolamento di alleanze sul terreno che renderebbe complicatissima una situazione già abbastanza complicata. Al momento, ci sono indizi un po’ contradditori, che possono avvalorare entrambe le conclusioni.
A favore della prima ipotesi c’è che, nonostante il carattere subitaneo dell’intervento, Trump ha ritenuto di preavvertire non solo gli alleati, ma anche i russi, in modo da evitare di colpire loro obbiettivi e provocare uno scontro diretto con Mosca; che, nonostante la durissima reazione del Cremlino, che continua a sostenere a spada tratta Assad, per ora la visita di martedì prossimo del segretario di Stato Tillerson a Mosca, che aveva l’obiettivo di concordare una maggiore collaborazione nella lotta contro il Califfato e individuare una possibile strada verso la pacificazione non è stata cancellata; che Trump, agendo come ha agito, aveva sicuramente non solo l’obbiettivo di punire Assad, ma anche di mandare un monito alla Corea del Nord e all’Iran e di compiere un gesto capace di ricompattare almeno momentaneamente dietro di sé il mondo politico americano (perfino Hillary ha approvato la sua iniziativa); che, schierandosi contro il regime dopo averlo, appena pochi giorni fa, quasi «sdoganato», può riparare all’errore, pagato caro, di avere chiuso le porte ai profughi siriani.
Ma ci sono anche segnali che vanno nella direzione opposta, cioè che le intenzioni di Trump erano diverse o che non abbia fatto bene i suoi calcoli. La reazione del Cremlino, che ha non solo denunciato «l’aggressione a uno Stato sovrano» e ribadito che Assad non dispone più di armi chimiche, ma sostenuto addirittura che il lancio dei Tomahawk era stato pianificato prima dell’attacco a Khan Sheikun, è stata più aspra del previsto e potrebbe preludere a una crisi di dimensioni inaspettate, ai limiti dello scontro.
Il presidente, inoltre, non poteva non sapere che, infliggendo un duro colpo all’aviazione siriana e rinunciando in pratica a qualsiasi collaborazione con il regine, faceva il gioco dell’Isis. Se poi, assecondando anche la Turchia di Erdogan, rinnovasse gli sforzi per eliminare un Assad che, nel bene e nel male, controlla la parte più popolosa e ricca del Paese, creerebbe un vuoto enorme che gli jihadisti tenterebbero immediatamente di riempire.
È comunque difficile immaginare che Trump, contraddicendo tutto ciò che ha detto in precedenza (e andando contro i consigli dei militari, molto influenti nella sua amministrazione) voglia impegnarsi direttamente in una guerra che, specie dopo l’episodio di ieri, potrebbe prolungarsi ancora per anni.
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