L'Editoriale
Martedì 31 Gennaio 2017
Trump e Starbucks
tra il bene e il male
Se prendiamo un minimo di distanza critica da quanto sta avvenendo negli Usa e osserviamo il braccio di ferro tra Donald Trump e i suoi avversari, dobbiamo riconoscere che gli schieramenti sono delineati a perfezione e disposti secondo una logica assoluta. Prima, però, sgombriamo il campo da un equivoco. L’opinione pubblica americana non è quella marea di buoni sentimenti e di braccia aperte ai migranti che i giornali che non amano Trump (cioè, quasi tutti) si impegnano a raccontarci. In un sondaggio del Pew Research Center svolto nell’ottobre 2016, in piena campagna per le presidenziali, il 54% degli elettori registrati (quelli davvero intenzionati a votare, i più impegnati) disse di non sentire alcun dovere morale nei confronti dei profughi siriani, mentre solo il 41% affermò il contrario.
E la stessa percentuale di elettori disse che gli Usa dovevano badare ai propri problemi e lasciare che gli altri Paesi risolvessero i loro da soli, contro un 42% che pensava il contrario. Quindi è assai probabile che, a proposito delle decisioni di Donald Trump, stiamo assistendo al solito fenomeno dei diversi rumori: l’albero che cade produce più fragore della foresta che cresce.
Questo serve anche a spiegare perché vi sia una precisa geometria nel contrasto tra il Presidente e vasti strati della società Usa, contrasto che mette in scena culture ma anche interessi ben contrapposti. Guardiamo le aziende più celebri tra quelle che, in un modo o nell’altro, hanno preso posizione contro The Donald, ovvero Starbucks, Airbnb, Google, Nike.
Emblematiche le parole di Mark Parker, amministratore delegato di Nike: «Crediamo in un mondo dove tutti possono celebrare il potere della diversità». Bello, ma falso. Se così fosse, perché queste aziende vogliono vendere a tutti, in ogni parte del mondo, lo stesso prodotto? Le stesse scarpe, gli stessi caffè, in India come in Sudafrica, a Milano come a Timbuktu? Queste aziende rappresentano storie di successo della globalizzazione che, come il termine stesso indica, vuole appiattire le differenze, non esaltarle. Vuole creare un unico consumatore globale, che ha gli stessi gusti e le stesse esigenze in qualunque Paese si trovi. Uniformità, altro che diversità.
Tutto questo lo diciamo con spirito laico, senza alcun intento demonizzatore. E intimi alla globalizzazione sono aziende come Google e Airbnb, che vendono un bene materiale e immateriale allo stesso tempo, uguale per tutti. Che sarebbe di queste grandi imprese se la Rete non fosse globale, se spostarsi per il globo non fosse facile, se la Rete non permettesse di comunicare con chi vogliamo quando vogliamo?
È, appunto, la globalizzazione nelle sue espressioni più dinamiche, innovative e creative. Un fenomeno che critichiamo e apprezziamo nello stesso tempo. Ma Trump e i suoi 59,8 milioni di elettori non è a questo mondo che guardano. Davvero nessuno ha notato che i primi manager e imprenditori da lui ricevuti alla Casa Bianca sono stati quelli di un’industria tradizionale come quella dell’automobile? Trump ha in testa l’operaio, l’agricoltore, il piccolo imprenditore, il bottegaio, l’industriale che produce beni solidi, categorie per cui la globalizzazione è un problema più che un’opportunità. Gente che vede nello straniero in arrivo un fastidio da gestire più che un fratello da abbracciare. I Millennials, la «generazione Erasmus», per dirla con categorie nostre, che sono il riferimento di Nike e Starbucks, per Trump sono solo i figli dei suoi elettori. E basta dare un’occhiata ai flussi elettorali per rendersene conto: l’elettore-tipo di Trump è un maschio bianco che ha più di 40 anni, un reddito medio e vive in centri medi o piccoli, quando non addirittura rurali. Ed è stato impoverito dallo sprofondo della finanza globalizzata per il quale nessuno ha poi davvero pagato.
In tutto questo, molti vedono la lotta tra nuovo e vecchio, bene e male, futuro e passato, progresso e conservazione. È una lettura possibile, forse anche giustificata ma semplicistica. Starbucks dice di voler assumere iracheni che abbiano collaborato con le forze armate americane, ma non spiega dov’era quando nel 2004 i profughi iracheni, travolti dall’invasione Usa, erano agli ultimi posti nella graduatoria dei rifugiati accolti dagli Usa. Né Trump chiarisce quanto petrolio si debba estrarre in un Paese che è già il primo produttore del mondo, né quante automobili possano ancora circolare. Quando si scontrano gli interessi, anche il bene e il male diventano più difficili da riconoscere.
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