Tra negoziato e rischi a Mosca

Mentre nelle città e nei campi dell’Ucraina si continua a combattere e a morire, spesso senza neppure poter combattere, gli osservatori di tutto il mondo cercano di leggere i segnali usciti dal secondo incontro tra le delegazioni russa e ucraina in territorio bielorusso. Segnali in qualche caso subliminali: per esempio i russi in abito formale e gli ucraini in maglione e giacca a vento, come a ribadire chi è il forte e chi è il debole, chi è l’aggressore e chi l’aggredito. In altri più sostanziali: il ministro della Difesa ucraino Reznikov questa volta si è trovato di fronte due vice-ministri russi (Fomin della Difesa e Rudenko degli Esteri) e il presidente della Commissione Esteri della Duma, Slutskij, a confermare che la delegazione russa sale di livello politico, mostrando così che sale anche l’interesse del Cremlino in questa trattativa. Più scettico il capo delegazione ucraino, Mykhailo Podoliak, consigliere del presidente Zelensky, secondo il quale «i risultati sostanziali non sono stati raggiunti»; più speranzoso il suo alter ego russo Vladimir Medinskij, convinto che «su molti punti è stata trovata una comprensione reciproca».

Nei fatti, l’unica vera novità è l’accordo per aprire dei corridoi umanitari che consentano agli ucraini prigionieri delle città assediate di defluire e allontanarsi senza pericolo. Non è molto, rispetto a una guerra che pare senza quartiere, ma non è poco. Soprattutto, servirà a risparmiare vite innocenti. E non solo. Ucraini e russi hanno deciso di stabilire contatti permanenti per organizzare quei corridoi. In altre parole, almeno sul campo, continueranno a parlarsi e a cercare di interagire. È importante, è la prima condizione per far sì che questa guerra, già così immotivata e atroce, non degeneri ancora, fino a uno scontro totale, con troppi civili ucraini, improvvisatisi soldati da un giorno all’altro, che finirebbero per immolarsi contro le forze armate russe.

E può essere importante anche per un’altra ragione: perché la realtà della guerra risalga fino ai vertici politici dei due Paesi e favorisca un ritorno alla ragione. Le cronache dei colloqui con il presidente francese Macron trasmettono l’immagine di un Putin quasi maniacalmente intransigente nella volontà di punire l’Ucraina per le presunte colpe di cui l’accusa. Al di là del chiacchiericcio da bar sull’equilibrio psicologico dello zar, è chiaro che per Putin siamo al «tutto o niente». Deve ottenere qualcosa di importante per giustificarsi davanti ai russi di quella che sarà una stagione speriamo breve di lutti e una stagione comunque lunga di dolori e sacrifici. Le notizie che cominciano a trapelare dal campo di battaglia possono far rinsavire qualcuno e magari allargare quelle piccole crepe di dissenso che al Cremlino si sono comunque viste.

E qualche ragionamento deve farlo anche Zelensky: il sostegno americano ed europeo ha forti limiti (niente no fly zone, nessun impegno diretto, solo armi e denaro), le perdite umane sono comunque notevoli (sembra un calcolo credibile quello proposto da alcuni esperti militari, ovvero 4 o 5 soldati ucraini per uno russo), il flusso dei profughi ha già superato il milione di persone e si allarga di giorno in giorno. In un Paese che già prima della guerra era il più povero in Europa e aveva 6 milioni di migranti economici. Resistere all’invasore è ammirevole e nobile, purché però poi resti qualcosa per cui è valso la pena resistere, qualcosa di più di una terra martoriata e svuotata delle energie umane migliori. Restiamo convinti, comunque, che la situazione si rivolverà, se e quando ci sarà una svolta, lontano da noi, in Ucraina o in Russia. Laddove si combatte, nel primo caso.

E laddove sembrano crescere i dubbi, per usare un eufemismo, sulla guerra di Putin. A Mosca si pubblicano sondaggi in cui il leader gode del 71% del favore popolare, ma il clima di repressione (centinaia di arresti a ogni manifestazione) e censura (la Duma si appresta a portare a 15 anni la pena per chi diffonde «informazioni tendenziose» sulla spedizione militare) obbliga a prenderli con molte molle. Di certo non siamo ancora alla sollevazione popolare, e forse non ci arriveremo mai. Ma il rischio tracollo fa certo riflettere chi, negli anni migliori del putinismo, ha imparato a manovrare le leve dell’economia globale.

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