L'Editoriale
Mercoledì 02 Novembre 2016
Tina Anselmi, rigore
impegno e politica
«Capii allora che per cambiare il mondo bisognava esserci». In questa frase c’è molto, quasi tutto, di Tina Anselmi, morta a 89 anni nella sua casa di Castelfranco Veneto. La frase si riferisce al momento in cui, a soli 17 anni, figlia di antifascisti, decise di entrare nella Resistenza come staffetta partigiana col nome di battaglia di Gabriella. Ma può essere interpretata come il codice genetico di una generazione di politici ormai scomparsi o in via di estinzione: quella dei cattolici democratici. Prima di lasciare l’insegnamento per la politica (era laureata in Lettere all’Università Cattolica del Sacro Cuore, come Nilde Iotti, che però abbracciò l’ideologia materialista e si iscrisse al partito comunista) la giovane professoressa Anselmi aveva dimostrato la sua vicinanza al sindacato cattolico, in particolare nella difesa dei diritti delle operaie tessili e delle maestre.
Il punto di partenza dunque fu l’ostinata difesa dei deboli e la ricerca della verità. Legatissima ad Aldo Moro e a Benigno Zaccagnini, questa giovane politica che riuscì a raggiungere ruoli che nessuna donna aveva mai conquistato prima aveva una concezione della politica quasi sacrale: il mettersi in gioco come spirito di servizio, per il bene comune, secondo la definizione di Paolo VI di politica come «forma più alta di carità». Finì per divenire una colonna portante della Democrazia Cristiana, cui si iscrisse a 32 anni. Dopo una lunga esperienza all’interno del consiglio nazionale della Dc, fu la prima donna della Repubblica ad essere nominata ministro, nel 1976, assumendo prima la guida del dicastero del Lavoro e della Previdenza sociale e successivamente quello della Sanità in due governi presieduti da Giulio Andreotti. Legò il suo nome alla riforma che introdusse il Servizio Sanitario Nazionale.
Ma la sua popolarità si deve all’incarico forse più delicato della sua esperienza politica, quello di presidente della Commissione sulla loggia massonica P2, nel 1981, nel corso dell’ottava legislatura. I retroscena dell’epoca raccontano che furono Pertini e la Iotti a proporglielo. La scelta dell’ex staffetta partigiana non era difficile, essendo la sua integrità morale e la sua ossessione per la verità cose ben note in Parlamento. Lei chiese quindici minuti per consultarsi con Leopoldo Elia, altro suo maestro politico, poi accettò.
Con il suo temperamento d’acciaio, forte e discreto, si dimostrò un’inflessibile avversaria dei poteri occulti, rivelando la tela di relazioni che ruotavano intorno al Gran Maestro della loggia, Licio Gelli. Davanti alla commissione, che concluse i lavori quattro anni più tardi, sfilarono generali, politici, banchieri, capi di governo, direttori di giornale, grandi firme dell’informazione, imprenditori, editori, il gotha della finanza italiana, interrogati senza timori reverenziali dall’ex staffetta partigiana. Furono anni drammatici, come rivelano i suoi diari, usciti pochi anni prima della sua morte.Ma alla fine Tina Anselmi e i parlamentari della Commissione riuscirono a disegnare in 120 volumi la ragnatela sempre più stringente e il cono d’ombra in cui l’Italia stava precipitando. «La P2 è stato il tentativo sofisticato e occulto di manipolare la democrazia», disse nella relazione conclusiva alla Camera del 9 gennaio 1986.
Nella biografia di Tina Anselmi c’è la biografia ideale di una generazione tutta d’un pezzo, dedita alla mediazione politica, com’era nello spirito democristiano, ma allo stesso tempo restia a qualunque compromesso. C’è la responsabilità di sentirsi parte di una componente politica – la Democrazia Cristiana che ha la responsabilità di governo. Ma anche l’ossessione per la ricerca della verità, celebrata come una sacerdotessa. Difficile trovare oggi politici del suo Dna (con l’eccezione dell’uomo che abita il Quirinale, epigono di una generazione di cattolici democratici). Ma sarebbe già un risultato trovare uomini e donne che si ispirano al suo esempio politico e morale.
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