L'Editoriale
Venerdì 18 Agosto 2017
Terrorismo urbano
Il nuovo fronte
Anche Barcellona, dunque, con le sue Ramblas così affollate di turisti da provocare l’ira e qualche rappresaglia degli abitanti, è entrata nel mirino del terrorismo. Dopo Parigi, Nizza, Berlino, Londra e altre grandi città europee, il capoluogo della Catalogna ama un prezzo altissimo alla furia islamista: tredici morti e decine di feriti, più un membro del commando assassino ucciso in uno scontro a fuoco con la polizia. Un altro degli attentatori, secondo le prime notizie, sarebbe agli arresti.
Non è il caso, adesso, di dilungarsi sulle modalità dell’attentato né sui suoi attori. Un’altra volta un veicolo lanciato sulla folla, a Barcellona un furgone preso a noleggio proprio come l’auto con cui, otto giorni fa, si tentò di far strage di un gruppo di soldati nel sobborgo parigino di Levallois-Perret. In Francia un algerino di 37 anni, Hamou B., ignoto all’antiterrorismo. Ieri, in Spagna, l’attenzione si è subito posata su un altro nordafricano, Driss Oukabir.
Ormai lo sappiamo, è questa la forma contemporanea del terrorismo. Converrà invece interrogarsi su due altri aspetti di questo incubo europeo. Il primo è questo: si dovrà forse fare qualche verifica statistica ma la sensazione netta è che gli attacchi di questo genere si siano moltiplicati a partire dal 2016, cioè da quando la Turchia (con il regime di Erdogan scosso dal tentato colpo di Stato), riallacciati i rapporti con la Russia, ha chiuso il confine con la Siria. Da quel momento l’Isis e i diversi gruppi terroristici, privati di una via fondamentale per il ricambio di uomini e mezzi, hanno cominciato a perdere terreno.
La chiusura di quel confine ha impedito agli islamisti europei (autoctoni o immigrati) di muoversi liberamente e li ha costretti a trovare un modo per «combattere» non sugli ormai irraggiungibili fronti siriani ma in casa. Cioè in Europa, da dove tra il 2011 e il 2016 erano partiti per arruolarsi nelle milizie del Califfato almeno 6 mila uomini, secondo le stime più conservative.
Una minaccia enfatizzata da un effetto non troppo collaterale. Il ritorno in patria (che in Europa vuol dire soprattutto Francia, Regno Unito e Germania) dei jihadisti superstiti in fuga dal Medio Oriente. Uomini sperimentati al campo di battaglia, bene addestrati, capaci quindi di contagiare altri il fanatismo dell’ideologo e la freddezza dello stragista.
Se in questo quadro inseriamo le modalità degli attacchi e i profili dei terroristi, ci rendiamo conto che il campo di battaglia ideale del nuovo terrorismo islamista è proprio la grande città. Non per una questione politico-religiosa, perché nelle metropoli europee trionfi la modernità, la parità dei sessi, il consumismo, l’erotismo e le mille altre cose invise a chi vuol riportare l’orologio della storia indietro fino ai primi califfi dopo Maometto. I fanatici sono già molto oltre. Ma semplicemente perché nelle nostre città, dove vivono ormai sette europei su dieci, è assai più facile colpire.
A Barcellona, Berlino, Londra e Nizza per fare una strage è bastato un automezzo, cioè la «cosa» più comune in una metropoli dopo le persone. Il bersaglio è enorme, non lo si può mancare: è la città stessa.
Il terrorismo, oggi, non è solo islamista, è anche urbano. Dunque varrà la pena di ripetere ciò che si è detto e scritto tante volte, è cioè che lo stagno in cui nuotano questi pesci, e cioè gli aspiranti jihadisti delusi, i jihadisti di ritorno e gli squilibrati che questi e quelli possono coinvolgere e sfruttare, sono le grandi e spesso poco controllate periferie, i quartieri poveri o degradati, i palazzi dove si ammassa la prima immigrazione, le carceri dove al piccolo delinquente viene offerta una causa, le moschee improvvisate o fasulle dove pure si raccolgono i fedeli.
Proprio in questi luoghi-non luoghi, che lasciamo ai margini della nostra vita quotidiana, lavora senza far rumore ma intensamente la fabbrica del radicalismo. Ed è lì che, invece di girare lo sguardo, dovremmo puntare tutta la nostra attenzione.
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