Terrore Isis
Questione politica

Ci siamo a lungo preoccupati perché non riuscivamo a vincere l’Isis. Adesso, di colpo, ci preoccupiamo perché stiamo vincendo. Per una curiosa coincidenza, Russia e Usa hanno lanciato allarmi analoghi: i terroristi in rotta in Siria si stanno trasferendo in Libia e si radunano a Sirte dicevano gli esperti russi; e da lì tenteranno la fuga in Europa, aggiungevano gli americani. Poi la famosa roccaforte dell’Isis in Libia, Sirte appunto, è caduta in qualche giorno dopo qualche bomba.

E allora, sulla scorta di qualche carta ritrovata nei covi e di qualche scritta sui muri, è partito l’allarme Italia: forse anche da noi, nel Nord, è attiva una rete di terroristi pronti a colpire in nome dello Stato islamico.

Politica e informazione, però, farebbero meglio a non inseguire l’ennesima suggestione del giorno. Per quale ragione, per esempio, un’eventuale rete italiana dell’Isis non ci avrebbe ancora colpito, se questa fosse stata l’intenzione? Perché aspettare la caduta di Manbij in Siria e di Sirte in Libia, e il prossimo attacco su Raqqa? Non avrebbe avuto più senso seminare il terrore prima di queste sconfitte, o durante la terribile battaglia per Aleppo? Lo stesso vale per l’idea dei terroristi che si mescolano ai migranti in fuga per approdare sui barconi in Italia e in Europa. È certamente possibile ma non probabile.

Con tutta l’Africa e il Medio Oriente a disposizione, perché i miliziani dell’Isis dovrebbero andare a cacciarsi nel ginepraio europeo di frontiere, controlli e indagini e in un ambiente sociale estraneo, allontanandosi nello stesso tempo dal flusso di denaro che arriva dal Golfo Persico a mantenerli e finanziarli? Perché dovrebbero chiedere aiuto, qui da noi, a una rete di complici che le polizie di tutto il continente tengono sotto pressione, quando sull’altro lato del Mediterraneo possono contare su appoggi ben più importanti ed efficaci e su un tessuto sociale ideale per mimetizzarsi e sparire?

Servizi segreti e forze dell’ordine tengono la guardia altissima e fanno bene. Ma noi dovremmo tenere la mente aperta e ragionare. In primo luogo, la sconfitta dell’Isis è più vicina ma non ancora prossima. Tanti altri sforzi e tante altre vittime saranno necessari prima di arrivare alla battaglia finale. E forse nemmeno quando le milizie che da anni tengono il campo in Siria, Iraq e Libia saranno sbandate e disperse, potremo parlare di vittoria. La storia degli ultimi decenni ci ha detto che il terrorismo islamico muta (natura, strategia, tattiche) ma non muore. Dai capi islamisti della seconda guerra di Cecenia in Russia ad Al Qaeda di Osama Bin Laden in Afghanistan a quello di Al Zawahiri in Iraq fino all’Isis di Al Baghdadi, corre una linea rossa fatta di soldi. Non siamo mai davvero intervenuti sui potentati che finanziano e armano i terroristi, quindi non abbiamo mai davvero sconfitto il terrorismo. Anzi, l’abbiamo incentivato, visto che dal 2000 a oggi il numero delle vittime per atti di violenza terroristica è cresciuto di nove volte.

Oggi, mentre incassiamo i primi e tardivi (l’Isis è insediato tra Siria e Iraq da due anni, lo era a Sirte in Libia da più di un anno) risultati, ci avviamo a ripetere lo stesso errore. Il successo sul campo di battaglia, che contro le milizie abbiamo comunque sempre ottenuto, è vano se non interveniamo sui santuari del terrorismo. In Europa, dai caffè e teatri di Parigi all’aeroporto di Bruxelles, non hanno colpito dei randagi delle stragi mediorientali ma cittadini europei, nati, cresciuti, scolarizzati e avviati al lavoro da noi e dalle nostre istituzioni. E mentre ci occupiamo dei barconi, così scomodi e precari tanto per un migrante come per un terrorista in fuga, siamo piuttosto inerti di fronte alla penetrazione legale in Europa di quel ricco estremismo wahabita che del terrorismo islamico è la comoda culla. I Balcani sono stati sono stati invasi dai petro-dollari che hanno fatto proliferare moschee e scuole coraniche ispirate al credo wahabita. Albania, Bosnia-Erzegovina e Kosovo (dove c’è la più alta percentuale di foreign fighters per abitante del continente) sono ormai Paesi a rischio.

Il pericolo è di scambiare lucciole per lanterne, di inseguire il particolare e perdere di vista il quadro generale. Le nostre agenzie di sicurezza conoscono bene la realtà e non si lasceranno certo fuorviare. Ma anche l’opinione pubblica deve fare la propria parte. E capire bene che il terrorismo islamico, anche e soprattutto nella forma che chiamiamo Isis, non è un fenomeno spontaneo, una rivoluzione popolare, ma una costruzione politica che ha dei mandanti e degli obiettivi. Finché non interverremo su questi, otterremo poco o nulla. E intervenire è compito della politica. Per questo è bene che la gente sappia come stanno le cose e non si lasci distrarre.

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