Tempesta perfetta
Ne usciremo insieme

È una tempesta perfetta. Il termine deriva dalla meteorologia: descrive un ipotetico uragano che colpisca esattamente l’area più vulnerabile di una regione. Ma simbolicamente si attaglia anche alla condizione che noi europei viviamo in questi tempi cupi. Da una parte l’insorgere di crisi gravi che non hanno ancora una risposta adeguata: economica (ormai prossima a compiere dieci anni), geopolitica (in particolare con il disfacimento di un pezzo di mondo sulla sponda Sud del Mediterraneo), del terrorismo di matrice islamica e dei migranti.

Sommate, si sono abbattute su un corpo fragile: il vecchio continente alle prese con la precarietà delle sue istituzioni e la debolezza della politica, ma anche con una crisi culturale e di identità, di una civiltà dispersa. La tempesta perfetta genera paura e senso di smarrimento, di fronte a fenomeni complessi e difficili da decifrare. Un recente sondaggio del Pew Research Center, importante centro di ricerca statunitense, condotto in dieci Paesi europei (Ungheria, Polonia, Paesi Bassi, Germania, Italia, Svezia, Grecia, Regno Unito, Francia e Spagna) rileva come il 59% degli europei ritiene che l’afflusso di richiedenti asilo musulmani aumenterà il rischio terrorismo nel proprio territorio nazionale. Percentuale più alta in Italia, Ungheria, Polonia e Grecia. Circa la metà degli europei poi teme di perdere il posto di lavoro e i benefici sociali a causa della crisi migratoria in atto. Il richiamo alla realtà (i fatti non certificano finora un nesso stringente fra la recente immigrazione e il terrorismo, come ribadisce il rapporto 2015 dell’Europol; gli attentati a Parigi, Bruxelles e Nizza sono stati compiuti da musulmani di seconda generazione) però non ha un potere curativo delle paure. Le percezioni infatti sono molto radicate e il meccanismo che le genera ha diverse spiegazioni. Fra gli anni ’80 e il 2000 noi europei dell’ovest abbiamo vissuto un’epoca d’oro, contraddistinta da benessere generato dalla crescita economica e assenza di gravi conflitti sociali. Il termine «guerra» era sparito dal nostro vocabolario quotidiano. Questa condizione ci pareva assodata e incontrovertibile. La fine della storia: era il titolo del fortunato saggio di Francis Fukuyama, pubblicato nel 1992. Secondo l’economista statunitense, il processo di evoluzione sociale, economica e politica dell’umanità avrebbe raggiunto il suo apice alla fine del XX secolo e da questo momento si sarebbe aperta una fase di conclusione della storia in quanto tale. Ilsistema politico liberaldemocratico avrebbe rappresentato il momento culminante e terminale della lunga evoluzione dell’umanità.

Ma è stata solo la fine di una certa storia, quella che ha contrapposto due blocchi (capitalista occidentale e comunista orientale). Quel vecchio ordine mondiale non è stato sostituito da un altro. Così viviamo nell’epoca del disordine. La condizione di pace e benessere conteneva un rischio inconsapevole di inganno, un equivoco: non era perenne. La somma delle crisi di questi anni ci ha così colto di sorpresa e impreparati, «sulle gambe» come si dice in gergo sportivo. Privi anche degli strumenti culturali per decrittarla.

Quella condizione, non essendo scontata, va attualizzata e ripresa. In economia l’età dell’oro non tornerà, anche perché si fondava su presupposti in parte falsi (la finanza dopata e non l’economia reale). I prossimi anni ci diranno su quali strade e con quale consistenza camminerà la ripresa. Ma già da ora abbiamo alcune risposte: ad esempio le imprese che innovano e, quando possono, internazionalizzano sono produttive e addirittura crescono.

Il ripiegamento e l’attesa di tempi migliori non pagano, nemmeno in altri ambiti. Le istituzioni pubbliche e la politica non devono giocare in difesa ma d’iniziativa. Le paure non vanno alimentate per calcoli di bottega ma prese a cuore e gestite. Qualcosa si può fare anche a livello locale. Valorizzando il bene (non tutto va male, come dice una vulgata rassegnata, anzi) e il senso di appartenenza ad una comunità, definita pure da principi e regole condivise da tutti i suoi abitanti. La vicenda della moschea di via Cenisio a Bergamo in questo senso è emblematica: non è in discussione il diritto di culto ma il dovere di rispettare le norme della convivenza civile e bene ha fatto il Comune, nel ribadire la disponibilità a trovare soluzioni, a non cedere sulla linea della fermezza.

La paura in questi anni si è alimentata anche della solitudine di tante persone in un mondo in rapido, inspiegabile mutamento. La solitudine è figlia di un’epoca che ha esaltato l’individualismo, il «farsi da soli», i diritti individuali dimenticando i doveri collettivi. E invece non siamo soli. Ci sono tante esperienze positive di risposta ai bisogni delle persone, luoghi ricchi di relazioni sociali significative e aperte, non ripiegati nel cinismo rassegnato e dove si praticano tentativi di incrementare il bene che c’è, non solo gli ideali. Da questa tempesta perfetta ne usciremo solo insieme.

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