Tanti veti, sul voto
l’alt del Quirinale

Fatto un giro, se ne fa un altro. Come previsto, il primo giro di consultazioni al Quirinale non ha fornito una soluzione per formare un governo: bisogna ricominciare daccapo. Lo ha ammesso lo stesso capo dello Stato ricordando che la Costituzione prevede che si formi un governo in grado di avere la maggioranza in entrambe le Camere e che nessun partito è in questa condizione. Per questo ha invitato tutti a riflettere ancora sulle intese che necessariamente debbono essere trovate. Mattarella concede tempo ai partiti, ma non un tempo infinito: l’Italia di oggi non si può permettere i 126 giorni di consultazioni che nel ’79 portarono al governo Andreotti V e poi alle elezioni.

C’è un limite, ci sono le attese dei mercati e dell’Unione europea; c’è il Def da presentare a Bruxelles, c’è in agenda a giugno un Consiglio europeo importantissimo dove non potrà andare un presidente del Consiglio dimissionario come Gentiloni. La pausa che il Quirinale concede deve preludere allo sblocco della situazione altrimenti l’arbitro dovrà prendere una iniziativa.

Per certi aspetti la difficoltà che si è registrata ieri è più grave di quanto ci si aspettasse. E lo si è capito dalle dichiarazioni rilasciate dai singoli gruppi. A cominciare da Di Maio che continua a rifiutare un dialogo con l’intero centrodestra (cioè con Berlusconi) perché addirittura non lo riconosce come coalizione; e che è pronto a fare un patto con la Lega ma avverte che è aperto anche il secondo «forno», quello del Pd, persino con Renzi dentro. È facile trovare in questa posizione dei segnali a Matteo Salvini: se non c’è una coalizione di centrodestra, non c’è nemmeno un leader di quella coalizione che possa rappresentare il 37 per cento dei voti popolari, ma solo il capo di un partito del 17 per cento, la metà dei voti grillini. E questo partito o fa un accordo subordinato con Di Maio premier o rischia di vedersi scavalcato dai democratici. Questo in italiano corrente si chiama irrigidimento.

Salvini non molla l’alleanza con Berlusconi proprio perché si presenta a Di Maio come il rappresentante di una coalizione e non della sola Lega, e come tale rivendica il governo «allargandolo ai Cinque Stelle». Anche questo in italiano si chiama irrigidimento.

Ma le impuntature non finiscono qui. A differenza di Salvini, Berlusconi ha sbarrato ogni dialogo con i Cinque Stelle («no al pauperismo, al giustizialismo, all’odio sociale, all’incompetenza») e ha detto che governo e premier spettano al centrodestra e che Forza Italia vuole partecipare «al più alto livello». Altro che emarginazione.

In tutto ciò, il Pd si chiama fuori e quindi provvede a chiudere il forno che Di Maio ha aperto. A pensare proprio male, una situazione del genere potrebbe portare alle elezioni anticipate in giugno: i vincitori claudicanti potrebbero sbandierare la loro propaganda («non ci hanno fatto governare») cercando di svuotare i depositi elettorali contigui: la Lega puntando ai voti berlusconiani, il M5S a quelli democratici. Non solo: sia Salvini che Di Maio sanno che il governo che nascesse oggi dovrebbe mettere in campo una manovra finanziaria di venticinque miliardi di euro, un salasso. A che pro intestarsene la responsabilità senza essere padroni del campo ma solo compartecipi di un esecutivo rabberciato e debole?

Dubitiamo tuttavia che una simile rincorsa alle urne sia in testa ai pensieri di Mattarella: il presidente piuttosto punterà a preservare la legislatura appena iniziata e a non dare un segnale internazionale di instabilità. Questa considerazione rafforza l’ipotesi, nel caso di un fallimento del secondo giro di consultazioni, di una iniziativa del Quirinale che metta tutti i partiti di fronte alle loro responsabilità.

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