L'Editoriale / Bergamo Città
Martedì 24 Ottobre 2017
Stavolta Trump
non è il solito cowboy
Il sospetto è forte. Ad allertare i bombardieri strategici nucleari B52 per la prima volta dai tempi della guerra fredda potrebbe non essere stato Donald Trump e forse nemmeno uno dei tanti generali che ormai gli fanno da tutori alla Casa Bianca, ma il premier giapponese Shinzo Abe. Appena ventiquattr’ore prima della grande mobilitazione aerea americana, infatti, il Giappone aveva regalato ad Abe e alla sua coalizione di governo una maggioranza parlamentare di due terzi (per la precisione, 312 seggi su 465) con il preciso mandato di modificare in modo radicale la Costituzione pacifista del Paese e di negare qualunque apertura negoziale alla Corea del Nord.
Anzi, molti osservatori credono che Abe abbia voluto queste elezioni anticipate proprio perché convinto che nel 2018 gli Usa potrebbero attaccare militarmente il regime di Kim Jong-un, con inevitabili ripercussioni politiche negative sugli alleati. Su questo sfondo, la mossa di Trump, che ha dichiarato lo stato di emergenza per i bombardieri armati con testate nucleari e acquartierati in una base della Louisiana, acquista sfumature strategiche diverse e, in un certo senso, più fini che non la solita smargiassata da cowboy. Si trattava, insomma, di accompagnare la svolta del Giappone, di sostenere un Paese alleato che si sente direttamente minacciato dai lanci di missili e dai test nucleari della Corea del Nord e appoggiare un Governo, quello di Abe appunto, schierato con gli Usa anche in un’altra sfida strategica, peraltro collegata a quella coreana: il contenimento politico, economico e militare della Cina.
D’altra parte, stormi di bombardieri Usa avevano minacciosamente sorvolato la Corea del Nord sia in luglio sia in settembre. Magari non erano nucleari ma letali lo erano comunque e in ogni caso il rebus di un intervento armato con le basi di Kim Jong-un non cambia natura: gli Usa possono annientare la Corea del Nord, che però, una volta attaccata, avrebbe quasi sicuramente il tempo di lanciare una feroce rappresaglia contro la vicina Corea del Sud. Gli Usa sono pronti a pagare questo prezzo? Hanno la tempra per sfidare la Cina, che ha finora protetto, pur criticandole, le smanie missilistiche di Kim? Tra pochi giorni, inoltre, Donald Trump sarà in Asia per una visita di Stato che toccherà, guarda caso, Giappone e Corea del Sud. Mettersi nei panni del grande protettore, del gigante buono che per i Paesi amici è disposto a prendere anche le misure più drastiche, è una buona mossa, come minimo dal punto di vista della propaganda. E davvero non pare di scorgere molto altro in questa che pare una «trumpata» qualunque ed è invece una mossa da politico consumato, da leader che vuol farsi incoronare campione del mondo libero, da vero erede di Ronald Reagan. Una mossa che, appunto, non sembra nemmeno di Trump.
Quello che sarà curioso verificare, invece, è l’eventuale reazione dell’opinione pubblica americana, soprattutto sul fronte liberal. Perché dopo tante manifestazioni per gli immigrati, per i gay, contro il razzismo, e pochi cortei contro la diffusione di massa delle armi da fuoco, piacerebbe vedere un qualche sussulto allorché cominciano a soffiare questi venticelli di guerra, nucleare per di più. Temiamo invece che, a parte qualche eccezione, sarà come al solito solo silenzio. Perché la violenza è deprecabile ma non quando si sfoga fuori casa. E la negazione dei diritti, che durante i conflitti sempre esplode nelle forme più estreme, è deprecabile solo quando riguarda noi. Come Donald Trump.
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