Sponde sovraniste
Abbracci pericolosi

Macron, che ha usato parole al miele nei confronti del misurato premier italiano, gli ha chiesto: chi comanda davvero a Roma? Il presidente francese, pur con i suoi limiti e insieme ad una Merkel sotto il tiro del fuoco amico, cerca di sfilare Conte dall’abbraccio di Salvini. Ognuno ha i sovranisti in casa, potente fattore di condizionamento. La proposta ha una sua logica, ma è ardita: si tratta comunque di offrire un’alleanza antipopulista al premier dell’avanguardia sovranista in Europa e mentre il suo ministro dell’Interno, testa di ponte del gruppo di Visegrad, è in azione sull’asse (parola poco felice) con bavaresi, austriaci e ungheresi.

L’interrogativo è quali margini di manovra costruttiva possa avere Conte e se sia nelle condizioni, e nella volontà, di prenderseli. Il premier, in verità fin qui più pop che populista, sa che Salvini non molla la presa e perciò cerca di non farsi tirare troppo la giacca da Parigi e Berlino. In definitiva, può offrire la propria cortesia e comprensione con qualche generica rassicurazione, cercando di spegnere gli incendi del socio di minoranza divenuto azionista di maggioranza. Si capiscono i complessi problemi del rodaggio di governo in un’Europa disunita che va indietro, tuttavia il presidente del Consiglio appare molto debole: forse troppo. Sta tornando la partitocrazia da parte di chi aveva predicato il contrario e riassunta nell’egemonia leghista. A lungo andare qualche profilo costituzionale ci potrebbe essere, perché l’articolo 95 recita che il premier dirige la politica generale del governo e ne è responsabile. L’impressione è che la cabina di regìa sia altrove, separando i luoghi della responsabilità da quelli della decisione.

Salvini è un politico consumato alla testa di una squadra rodata e, si sa, non va per il sottile specie con chi non ha voce, i migranti. Il capo leghista vuole sfruttare l’onda d’urto di pezzi consistenti d’opinione pubblica che lo seguono, al di là dello stesso perimetro del suo partito: del resto un po’ ovunque non è più il tempo dei moderati (intesi come l’esito della moderazione) e ormai il consenso si conquista con posizioni estreme. Il dominus dell’esecutivo, mentre è impegnato a svuotare quel che resta della cassaforte elettorale di Berlusconi, ha bisogno di capitalizzare sul lato migranti. E quindi augurarsi che i democristiani bavaresi abbiano la meglio nel braccio di ferro con la cancelliera: la Merkel, al suo quarto mandato, deve misurarsi con la prospettiva di una crisi della Grande coalizione, ma resta una delle poche risorse amichevoli sulle quali può contare l’Italia. Non si capisce, infatti, l’utilità (l’interesse nazionale, mettiamola così) di alleanze sbagliate e come si giustifichi la sponda sovranista: l’Est e i tedeschi oltranzisti sono disposti semplicemente a rispedire i profughi al mittente, cioè al Paese di primo approdo, quindi all’Italia. Ci si chiede comunque fino a che punto l’Italia possa essere tenuta in tensione su temi così delicati, che spaccano e che chiamano in causa la civiltà giuridica di un Paese, con un effetto domino sulle relazioni con i partner di sempre. Può darsi che Salvini voglia alzare il prezzo per ottenere spazi negoziali, tanto più che l’altra ragione sociale del salvinismo è divenuta inservibile: l’uscita dall’euro è finita fuori agenda, mentre con la fine della politica espansiva della Bce (50 miliardi di euro d’interessi risparmiati sul debito pubblico) un Paese vulnerabile come il nostro dovrà dimostrare di meritarsi il sostegno che la Banca centrale europea ha saputo assicurare.

In attesa di conoscere meglio il progetto del ministro dell’Economia, Tria, proprio su questi temi e in vista della legge di bilancio, Di Maio brilla per la sua silenziosa subalternità verso Salvini che s’è preso la scena. Là dove sarebbe necessaria un’operazione trasparenza e verità, che vada oltre gli annunci mirati sulla platea del momento: conoscere, cioè, il destino dei punti del contratto (flat tax, reddito di cittadinanza, legge Fornero), visto che il ministro ha accentrato nel suo dicastero i principali centri di spesa pubblica. Si dirà, ed è vero, che Di Maio ha la testa altrove, in quanto l’inchiesta sullo stadio di Roma sporca, almeno sul piano politico, l’immagine candida del partito della purezza e imbarazza il vertice del movimento. Per il momento s’è capito, anche se non c’era bisogno, la distanza che corre fra maturità istituzionale e inadeguata cultura politica di una classe dirigente. Di Maio, giusto per reinterpretare una frase ultimativa del suo collega Salvini, potrebbe chiedersi se per caso anche per i Cinquestelle la pacchia non stia per finire.

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