Sotto choc, ma anche
questa è America

E adesso? Passata la folle giornata delle proteste e dell’assalto al Congresso, insediato ufficialmente Joe Biden alla presidenza e stigmatizzata a dovere l’incoscienza di Donald Trump, che si fa? Che succede negli Stati Uniti? Si sente in giro una gran voglia di archiviare il tutto alla voce «follia» (compresi i quattro morti, pare uccisi a sangue quasi freddo dalle forze dell’ordine), di stendere bello largo lo slogan «questa non è l’America», di contentarsi della ritrovata pace una volta sparsi con generosità i termini di rito come «democrazia», «colpo di Stato», «libertà». Questo significherebbe confondere, ancora una volta, la causa con l’effetto, come avvenne nel 2016 quando Trump, nella sorpresa di tutti gli «esperti», sconfisse clamorosamente Hillary Clinton. I segnali di un possibile ribaltone, soprattutto in campo economico, c’erano ed erano chiari. E fu un ribaltone storico, perché Trump era il candidato del tutto estraneo ai partiti, un discusso tycoon dell’edilizia espresso da quella che un tempo sarebbe stata chiamata la «società civile».

L’astuto Obama offrì poi alla galassia pro-democratica la scusa perfetta per mandare tutto in soffitta: è stato Putin, è stato il Russiagate. Un’assoluzione generale, il grado zero dell’analisi politica. Niente causa, solo effetto.

Sembra ora andare in onda la replica. Trump ha perso le elezioni 2020 a causa del Covid e della sciagurata gestione, personale e collettiva, della pandemia. Fino al Covid la sua rielezione era data per molto probabile, se non per scontata. Un’ottima ragione, in realtà, per mandare a casa un Governo o un presidente arrivato a fine mandato. Il problema è che Trump non ha perso ma ha guadagnato consenso: dai 63 milioni di voti popolari del 2016 è passato ai 74 del 2020. Non è vero, quindi, che la sua non sia America. Lo è tanto quanto quella di Biden, comunque più folta visto che il democratico ha superato gli 80 milioni di voti.

Invece di stigmatizzare, sarebbe utile analizzare. Che cosa ha fatto Trump nei quattro anni di presidenza per soddisfare gli elettori del 2016 e attrarne altri 11 milioni? E perché così tanti dei suoi elettori (secondo un sondaggio Fox News, il 15 dicembre la percentuale era del 77%) credono alla storia delle elezioni rubate, smentita peraltro in ogni possibile sede? Possiamo davvero credere che siano tutti burini proto-fascisti con tre narici?

Da anni succede qualcosa, nella pancia dell’America, che nessuno riesce davvero a definire e afferrare. Un fattore da studiare potrebbe essere la crescente urbanizzazione, che ha visto ormai radunarsi nei grossi centri urbani l’80,7% della popolazione, con circa 60 milioni di persone rimaste però a vivere nelle aree rurali, con bisogni del tutto diversi e spesso tagliate fuori dai flussi più interessanti dell’economia e della cultura. Un altro è la crescita delle cosiddette «minoranze». Secondo le proiezioni realizzate dopo il censimento del 2018, gli Usa cesseranno di essere una nazione a maggioranza bianca nel 2045, quando i bianchi saranno il 49,7% della popolazione con un 24,6% di latinos, un 13,1% di afroamericani e un 7,9% di asiatici (più altri). Cambia l’elettorato, ma in due sensi. Meno bianchi, certo. Ma anche più diversi i non bianchi: dal 1980 a oggi è raddoppiato il numero degli esponenti di minoranze che godono di alti redditi, ma resta sproporzionato il numero di esponenti di minoranze che non finiscono le scuole o commettono reati. E poi la questione economica: il turbocapitalismo della finanza e delle delocalizzazioni ha fatto molte vittime, negli scorsi anni, nel popolo degli stipendi fissi e dei salari. Trump ha provato a rispondere con «America First!» e la guerra dei dazi, ottenendo risultati controversi. Via lui, qualcuno dovrà comunque farsi carico del problema.

Queste sono le vere sfide della presidenza Biden o, forse ancor più, della vicepresidenza Harris. Questa la storia che si dovrà scrivere. Restano pochi giorni per occuparsi della cronaca, di Trump che non si fa più vedere, del venticinquesimo emendamento con cui si potrebbe cacciarlo prima del tempo dallo Studio Ovale (ma che senso avrebbe?), del fuggi fuggi di chi abbandona in extremis la nave che affonda. L’America, oggi, è questa cosa qua.

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