L'Editoriale
Domenica 05 Marzo 2017
Solidità economica,
garanzia politica
Un’affermazione del populismo nazionalista alla prossima tornata elettorale continentale avrebbe ripercussioni sulla stabilità economico-finanziaria dell’Unione europea. Il primo Paese a seguire sarebbe l’Italia per effetto della condizione della sua finanza pubblica. Il 30 per cento del debito italiano è in mani estere, meno che negli anni precedenti, ma pur sempre rilevante ai fini degli equilibri finanziari. Sulle piazze internazionali quindi ci si interroga sulla tenuta del sistema Italia. Ci sono due scadenze che impensieriscono: la fine del quantitative easing della Banca centrale europea previsto per la metà del prossimo anno e il consolidamento della manifattura italiana.
I prossimi cinque anni sono decisivi: o si dà slancio a quella fetta dell’imprenditoria che naviga ancora nell’incertezza, e sono circa il 60 per cento delle imprese attive sul territorio, o il declino industriale dell’Italia è segnato. Basti osservare la frequenza delle acquisizioni dei marchi storici italiani da parte di imprese straniere per capire che lo spazio si restringe a vista d’occhio.
È da questa constatazione che prende forza il piano di governo per la riduzione del cuneo fiscale del 5 per cento così da raggiungere il livello della Germania. La situazione politica italiana sembra complicarsi ma per il governo si aprono spazi perché le fazioni politiche sono troppo impegnate a combattersi per poter pretendere di dettare l’agenda.
Matteo Renzi è stato la grande speranza non solo di molti italiani, ma anche dei governi a livello mondiale ,desiderosi di vedere l’Italia finalmente in marcia verso la stabilità. La sconfitta al referendum è stata la conferma per gli osservatori internazionali della irreformabilità del Paese Italia. Il risultato è che mentre l’economia fa ancora fatica a crescere la spesa è invece aumentata dell’1,3 per cento. Crescono i consumi e anche gli investimenti con l’Italia, però ancora in mezzo al guado perché sommersa dal debito pubblico. Sono parole di Sebastiano Messina, ceo di Intesa e purtroppo non è il solo.
I governi italiani che si sono succeduti negli ultimi anni hanno tamponato gli effetti devastanti della crisi economica ma non hanno affrontato di petto il debito pubblico. C’era sempre un problema più importante, come se avessimo ancora la lira e l’inflazione potesse ridurre i danni di una politica economica fatta a debito. Va fatto notare che il governo in Germania di Gerhard Schröder nel 2003 contava una maggioranza al Bundestag di pochi voti, ma portò a termine le riforme che hanno permesso al suo Paese di uscire dalla crisi e di avviarsi sulla via del primato. Le contestazioni all’interno del suo partito lo portarono alle dimissioni e i frutti li raccolse poi il successore, nella figura di Angela Merkel.
In Italia ogni proposta credibile di revisione della spesa pubblica a partire dal libro bianco dell’attuale direttore esecutivo del Fondo monetario internazionale Carlo Cottarelli, passando a quella dell’esperto dell’Università Bocconi Roberto Perotti, sino al fidato Yoram Gutgeld, è naufragata nel timore di scontentare fette di elettorato.
Così spetterà ad un governo nato per essere di transizione traghettare il Paese verso una sostenibilità economica in grado di fare da baluardo protettivo all’incertezza politica. Del resto è l’emergenza l’unica forza in grado di scuotere il Paese dal suo torpore e di far superare le resistenze alle sfide della modernità. Quello che Matteo Renzi non ha osato lo tenta il suo successore nell’unica convinzione che conta per un politico: non avere nulla da perdere.
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