L'Editoriale
Domenica 28 Agosto 2016
Sisma, il difficile
viene adesso
«Non vi lasceremo soli»: così Renzi, subito dopo il sisma, e Mattarella, ieri ai funerali, hanno confortato i terremotati. Si dirà che la frase è dovuta e del resto sono le stesse parole rivolte da Obama agli alluvionati in Louisiana. Un piccolo alfabeto impegnativo e responsabile per le istituzioni, che espone in primo piano soprattutto il premier. Una frase-guida per il presente e per il prossimo futuro da ricostruire. In questi frangenti simboli e gesti contano più del solito.
Le prime mosse del governo paiono promettenti, ma si sa che dall’impatto usciamo solitamente a testa alta: il problema è il dopo, quando il dramma viene risucchiato dalla burocrazia e la quotidianità smarrisce pathos e rigore. Ci sono precedenti indifendibili, dove lo Stato è uscito sconfitto come nel Belice e in Irpinia, ma dobbiamo ricordare l’esempio virtuoso del Friuli del commissario Giuseppe Zamberletti, quando si rimise in piedi quella terra di frontiera a mani nude e partendo da zero, sapendo di poter contare sull’unità del Paese e sull’investimento in fiducia e speranza.
Anche l’Italia del 1976 non stava bene: percorsa dal terrorismo, con un’economia afflitta da una malattia sconosciuta che gli specialisti chiamavano «stagflazione»: stagnazione più inflazione per effetto anche della crisi petrolifera in seguito alla guerra arabo-israeliana del Kippur. All’Italia repubblicana, fra progressi e arretramenti, è capitato di ballare allegramente sul Titanic per poi ritrovare, sull’orlo dell’abisso e nell’ora più buia, residui scampoli di saggezza e le ragioni di una mobilitazione collettiva. Possiamo chiamarlo Stellone o felice congiunzione astrale, oppure più semplicemente un modo tutto nostro di essere italiani. La sfida si replica oggi ed è l’urgenza di un nuovo inizio: per le istituzioni che devono onorare in termini concreti la parola data, e su questa promessa saranno giudicate, e per l’opinione pubblica chiamata ad una nuova prova di maturità. Consapevoli che le ricostruzioni non hanno un incedere lineare, che portano in una terra incognita e che non sono felici per definizione. Lo possiamo auspicare noi, dal nostro riparo confortevole, ma per chi ha perso i propri cari, la casa, il frutto di una vita di lavoro se e quando si arriverà al dunque, quel traguardo sarà certo un dolore in meno, ma pur sempre dolore: ecco perché queste persone devono sapere che non resteranno sole. Raramente nella storia recente è capitato un accumulo di circostanze negative sia per intensità sia per il loro permanere, tant’è che lo stesso termine «emergenza» che ci perseguita ha perso il senso proprio, spogliato della sua carica inattesa e dirompente. Viviamo tempi di critica normalità, o di normalità eccezionale: il terrorismo, le guerre, la lunga e ostinata crisi economica che non molla la presa con gli effetti indotti sulla crisi bancaria e soprattutto sulla disoccupazione e sul malessere sociale.
Ricostruire un pezzo d’Italia, peraltro in un raggio molto ampio, ma ricomporre insieme un nuovo rapporto fra il basso e l’alto della società: le stesse immagini di uno sforzo corale, che non sono flash momentanei, vanno al cuore di una partecipazione a più voci che contrasta con il leaderismo estremo. Serve il realismo della sobrietà, quel degasperiano «mettersi alla stanga» che, quando stavamo peggio, sollecitò la passione civile della miglior Italia. Nonostante tutto, l’occhio disincantato sotto la superficie aspra può scorgere una silenziosa linea di continuità di progresso civile, che ora va ripresa con determinazione. Perché la gestione del dopo-terremoto, con la definizione di una linea strategica e la gerarchia degli interventi, impatta su un quadro clinico da trattare con chirurgica precisione.
Il primo intreccio è con la prossima Legge di stabilità e qui entra in gioco il rapporto altalenante con l’Europa. La priorità va alla deducibilità delle risorse stanziate per i terremotati dal conteggio del deficit, ma nel frattempo bisogna trovare la quadratura del cerchio fra una manovra che sia espansiva e la messa in sicurezza del sistema bancario dove la falla è stata tamponata ma non risolta. Il governo chiederà il massimo, e non può essere altrimenti, tuttavia la domanda è quanto riuscirà a portare a casa tanto più che, in presenza di stime sulla crescita al ribasso, nessuno è in grado di dare certezze sui tempi di uscita definitiva dalla recessione.
L’autunno, per mancanza di fantasia, è sempre definito caldo, ma nel nostro caso da qui a fine novembre, cioè al referendum costituzionale, si apre un percorso campale e il quadro cambia: la necessità di gestire al meglio il dopo-terremoto determina una nuova agenda e si sovrappone a condizioni di obiettiva difficoltà nel Paese, nel Pd e nella stessa maggioranza, in un contesto in cui i cittadini sono indisponibili a fare sconti. Il primo a saperlo è Renzi che, nel perdere il passo di carica guascone, ha recuperato il senso della misura, nell’abbandonare il piglio del combattente solitario contro tutti ha ritrovato le virtù della concertazione: a ben vedere il Renzi 1 finisce qui e vedremo il profilo del Renzi 2 e soprattutto come l’interessato reggerà questo ruolo. Dopo la rottamazione è il turno della ricostruzione.
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