Sindaci gabellieri
e province nel caos

Stavolta per i Comuni non c’è stata la sforbiciata del governo. Il Documento di economia e finanza (Def) varato venerdì sera dal governo non penalizza gli enti territoriali, ma neppure corregge un rapporto squilibrato ai danni della periferia.

Fassino, presidente dell’associazione dei sindaci, aveva dato l’allarme anzitempo ed è stato ascoltato: non solo i Comuni hanno già dato (un miliardo e 200 milioni di euro in trasferimenti statali tagliati con la Legge di stabilità), ma sono scesi alla soglia di sostenibilità dei servizi essenziali per il cittadino. Oltre, quanto a spremitura, non si può andare.

Poi qualcosa di buono, se sarà proprio così, potrebbe venire dalla local tax, la nuova imposta sugli immobili che dal 2016 dovrebbe unificare Imu e Tasi, dopo lo straordinario pasticcio di fine 2012 quando l’Imu cambiò pelle 3 volte in 3 mesi. Sarebbe la prima razionalizzazione dopo anni di incertezze.

In tempi in cui il governo non è particolarmente popolare fra i primi cittadini, e neppure questi godono di un rapporto privilegiato con l’opinione pubblica, già qui incontriamo un ostacolo: il pendolo normativo. Un meccanismo perverso: non si sa quanto bisogna far pagare e quanto rimane in cassa per finanziare i servizi. Nella «società dei proprietari», in cui la proprietà della casa forma la cittadinanza dei contribuenti e dovrebbe garantire una sicurezza di vita, in 3 anni abbiamo avuto 27 leggi.

Mettiamoci nei panni di chi deve decidere, ma anche di chi deve pagare, anche perché il diavolo si nasconde nei dettagli. Il governo Renzi, quanto a tagli, è sulla linea dei governi Berlusconi, Monti e Letta, ma almeno ha allentato il Patto di stabilità che, per la prima volta, consente di svincolare quote di bilancio. Ora il problema è come questa ritrovata flessibilità viene declinata, perché ridurre la spesa corrente non può essere un criterio di merito in assoluto: in questo modo un Comune con le carte in regola si ritrova ulteriormente penalizzato.

Le relazioni fra Roma e il territorio soffrono di una instabilità ancora lontana da un approdo e in cui si osservano un paio di tendenze. La prima, almeno a livello di percezione, è che vi sia uno sdoppiamento istituzionale: il governo si assicura un ruolo virtuoso, delegando il «lavoro sporco» ai sindaci. Sindaci-gabellieri, esattori per conto terzi. Renzi ha vita facile, perché cavalca la legittima onda di discredito alimentata dall’allegra finanza e dalla malapolitica di certe Regioni e di non pochi Comuni.

Ma pure i Comuni virtuosi della Bergamasca non sono esenti da responsabilità, afflitti come sono da frammentazione esasperata e conservatorismo ipercampanilistico che frenano la gestione associata dei servizi e le centrali uniche di beni e servizi. Meglio autoriformarsi in tempo che subire scorribande normative. L’altro aspetto è che Renzi, per quanto sia espressione della ditta dei sindaci e sia debitore verso questa lobby, sta «ricentrando» il governo delle autonomie: riporta a casa, cioè a Roma, ciò che era stato devoluto al territorio. Per gli enti locali si replica la formula adottata per le parti sociali e i corpi intermedi con lo stop alla concertazione: viene ridimensionato tutto quel che sta fra il cittadino e lo Stato.

Non è più tempo di federalismo fiscale. L’ultima questione è il buco nero delle nuove Province che, in mezzo al guado legislativo e vittime di una drastica cura dimagrante, rischiano l’alternativa fra caos e default. Non si sa chi debba amministrare il personale in eccesso e quali siano le funzioni che restano a carico della Provincia o che passano alla Regione: siamo al gioco del rimpallo. Dovrebbero esordire le «aree omogene», ma nessuno è in grado di spiegare cosa siano, con quale pasta siano confezionate: appena nate, e ancora in culla, già hanno bisogno di essere soccorse.

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