Si fa largo Gentiloni
con l’avallo di Berlusconi

Nella giornata delle consultazioni anche con i più minuscoli gruppi parlamentari e del brusco altolà della Bce sul caso Montepaschi, si comincia a delineare la soluzione di compromesso trovata da Mattarella e Renzi per dare uno sbocco alla crisi. E la soluzione si chiama Paolo Gentiloni a capo di un governo politico a termine, cioè che faccia la legge elettorale e guidi l’Italia quantomeno fino agli appuntamenti internazionali di primavera per poi andare a votare. Il governo dovrebbe essere sostenuto da una maggioranza più ampia di quella esistente, e gli sguardi si appuntano su Silvio Berlusconi.

Difficilmente però il capo di Forza Italia potrà assicurare un appoggio esplicito che gli costerebbe la rottura con la Lega; di sicuro sarà in grado di garantire una opposizione «responsabile» da parte di Forza Italia basata su un accordo sulla nuova legge elettorale. Berlusconi sostiene la necessità di un ritorno al proporzionale e su questa base non è difficile una mediazione con Renzi che consenta a tutti di fermare il Movimento Cinque Stelle e al Cavaliere di rendere di nuovo competitivo un centrodestra a trazione azzurra e non salviniana. Una legge elettorale che dovrebbe assicurare al Pd e a Berlusconi i ruoli consolidati di antagonisti, lasciando fuori il nemico comune, cioè Grillo.

Perché Gentiloni. Per varie ragioni. La prima è perché è un renziano della prima ora, un po’ come Fassino, uno di quelli che scommise su Renzi già dalla prima Leopolda. Come tale è fidato ma non fa ombra, anche perché non è dotato di una corrente di partito propria come invece Dario Franceschini, il cui nome è stato scartato in quanto capace di insidiare la leadership renziana. In secondo luogo perché Gentiloni è il ministro degli Esteri e come tale può affrontare bene gli appuntamenti primaverili. Accanto a lui resterebbe comunque Pier Carlo Padoan come garanzia per mercati e Commissione europea: capiremo presto le vere ragioni per cui il suo nome non è stato il prescelto per il ruolo di premier. Di sicuro resta a bordo come la maggior parte dei ministri in carica (con la vistosa eccezione di Maria Elena Boschi in quanto autrice della riforma costituzionale clamorosamente bocciata dagli italiani). Agli Esteri dovrebbe andare Carlo Calenda, già attivissimo ministro dello Sviluppo Economico.

Come si arriva a questo compromesso, posto naturalmente che tutte le bocce tra oggi e domani vadano a pallino? Si è arrivati perché Renzi non voleva il reincarico, soluzione preferita dal Capo dello Stato, e al massimo avrebbe accettato di rimanere in carica dimissionario fino alla sentenza della Consulta sulla riforma elettorale, ma questa soluzione trovava contrario Mattarella. Dunque serviva una soluzione mediana, «all’interno del Pd», per un governo senza aggettivi: né istituzionale, né di scopo, né transitorio. Un governo e basta, che dura quanto dura, senza che nessuno programmaticamente ponga limiti e paletti. I limiti ci sono però nella sostanza perché Renzi non accetta di procrastinare le urne oltre giugno, convinto com’è che bisogna mettere all’incasso quel 40 per cento di «Sì» che lui è riuscito a mobilitare al referendum e che potrebbero anche non votare per il Pd ma di sicuro apprezzano le intenzioni dell’ex premier. Inoltre la soluzione Gentiloni così congegnata può trovare una certa neutralità da parte della minoranza del partito democratico che sin dall’inizio ha respinto la prospettiva del voto immediato, a patto naturalmente che la collaborazione con Berlusconi non si configuri come un nuovo «patto del Nazareno».

Insomma, tutte queste caselle sembrerebbero in via di sistemazione. Certo la fretta agli italiani l’ha messa proprio la Bce. Il rifiuto di concedere a Mps la proroga di venti giorni per la ricapitalizzazione ha recapitato un messaggio da Francoforte implicito ma chiarissimo: a Roma serve un governo vero e subito.

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