Seconda Repubblica
Triste tramonto

Queste elezioni amministrative hanno creato problemi a tutti. A chi ha perso, naturalmente, ma anche a chi ha vinto. Ha perso Matteo Renzi, come tutti sanno. È sicuramente vero, come il segretario del Pd si è affannato a ripetere, che i democratici, tra primo e secondo turno, hanno conquistato più comuni e comunelli di tutti gli altri. Ma è anche vero che ora governano meno della metà dei capoluoghi di provincia e regione andati al voto. E che tra questi non c’è più addirittura Genova «la Rossa» insieme ormai all’intera Liguria la cui rotta cominciò con la lotta fratricida che regalò la Regione a Forza Italia e a Giovanni Toti, oggi pronto a piantare la sua bandierina anche sotto la Lanterna. E poi Renzi ha perso l’Aquila, città simbolica, insieme a Monza, Piacenza, Sesto San Giovanni, ha perso in Toscana e in Emilia. È vero, ha vinto a Taranto, a Padova e a Lecce. Ma sotto il profilo del simbolo politico, per il Pd queste elezioni sono state un disastro. Aggravato dal fatto che il segretario del Pd non ha combattuto, si è defilato dalla campagna elettorale evitando persino di farsi vedere a Genova. «Voto locale»: ma non è così. Ora il litigiosissimo mondo della sinistra che lo odia riproverà a dare al segretario del Pd il colpo letale, quello che non è riuscito dopo il referendum.

Vecchi e nuovi primattori e comprimari del centrosinistra già si stanno agitando come api impazzite per liberarsi una volta per tutte dell’«usurpatore». Che, così indebolito, non sappiamo come reagirà, ora che è accerchiato e barricato al Nazareno coi fedelissimi. Negli ultimi tempi Renzi è sembrato andare un po’ a tentoni, ora vedremo se recupererà freddezza e lucidità. C’è chi dice che potrebbe far saltare il governo per andare subito alle elezioni, ma ha davvero questa possibilità? E gli converrebbe? Nessuno sa quali siano ora i margini del patto implicito con Berlusconi che di sicuro gli è molto meno nemico di tanti suoi compagni di partito e di «area».

Come è chiara la sconfitta del Pd, altrettanto evidente è la vittoria dei partiti del centrodestra. Che naturalmente già litigano per stabilire chi abbia vinto di più. «Ho vinto io», dice sicuro Matteo Salvini. «Ma neanche per sogno, io sono tornato in campo e ho portato tutti alla vittoria», replica Silvio Berlusconi. «La verità è che voi due vi volete alleare uno con Renzi e l’altro con Grillo», accusa Giorgia Meloni. Il successo rischia così di essere più indigesto di una sconfitta: tutti i problemi che c’erano prima ora sono come acuiti come sempre succede quando nel campo si sente che la carestia sta finendo e qualcuno presto dovrà mietere. Ma chi? I «moderati» o i «sovranisti»? Quelli che stanno nel Ppe con la Merkel o gli altri che considerano la Merkel un nemico? «Uniti si vince”, dicono tutti: già, ma è davvero un’impresa tentare di marciare uno accanto all’altro se tutti provano a fare lo sgambetto al vicino.

C’è un altro che ha perso ma dice di aver vinto, ed è Beppe Grillo. L’ex comico ha perso malamente Genova, la sua città; ha perso Palermo per lo scandalo delle firme false; ha perso Parma perché ha cacciato Pizzarotti. Non è entrato in nessun ballottaggio importante e si è ridotto a portare voti al centrodestra (che forse si è ripreso voti propri «in libera uscita»). «Ma abbiamo vinto a Fabriano e a Guidonia», si consolano i grillini, oscuramente consapevoli del fatto di essere i veri nemici di loro stessi. «Se non stiamo insieme ci annientano», è la frase più sincera pronunciata ieri da Grillo che sa meglio di chiunque altro che tenere insieme quell’esercito è la vera impresa impossibile.

Come si vede, tutti i protagonisti maggiori della battaglia politica si ritrovano ora con più problemi di quanti ne avessero alla vigilia del voto. Ognuno a cospetto delle proprie contraddizioni e insufficienze, e tutti smarriti di fronte ad un futuro che si presenta sotto le spoglie di una legislatura, la prossima, allo sbando, senza maggioranza e senza linea.

Il bassissimo livello di affluenza al voto dimostra che gli italiani sono i primi a conoscere i limiti dei partiti che si contendono la guida delle città e della Nazione. Il loro voltare le spalle alle urne per andare a occuparsi d’altro, o semplicemente per andare al mare, è il più duro giudizio che potesse colpire una classe politica quale è quella che ci consegna il tramonto della cosiddetta Seconda Repubblica.

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