Se la tecnologia
genera ingiustizia

L’insaziabile appetito della trasformazione digitale è una delle forze più potenti nel dare nuova forma alle relazioni economiche, sociali e politiche. L’impatto è rilevante nella quotidianità e nelle prospettive, nel perimetro personale e collettivo, nella dimensione locale e globale. La recente pubblicazione dei risultati trimestrali dei titani digitali rivela un ruolo più simile a quello di governi nazionali anziché di grandi imprese private. Apple vale oltre 900 miliardi di dollari, una valutazione superiore.

L’insaziabile appetito della trasformazione digitale è una delle forze più potenti nel dare nuova forma alle relazioni economiche, sociali e politiche. L’impatto è rilevante nella quotidianità e nelle prospettive, nel perimetro personale e collettivo, nella dimensione locale e globale. La recente pubblicazione dei risultati trimestrali dei titani digitali rivela un ruolo più simile a quello di governi nazionali anziché di grandi imprese private. Apple vale oltre 900 miliardi di dollari, una valutazione superiore alla ricchezza finanziaria privata della Svezia. Facebook ha superato i due miliardi di utenti, il 50% in più degli abitanti della Cina. Amazon si avvia a chiudere l’anno con vendite attorno a 200 miliardi di dollari, alla pari del prodotto interno lordo della Repubblica Ceca. Google assorbirà nell’anno quasi un terzo di tutta la pubblicità digitale mondiale, raggiungendo virtualmente oltre la metà degli abitanti del pianeta.

Va detto che le tecnologie digitali sono cruciali per la crescita dell’economia e hanno assunto un ruolo portante nella diffusione del sapere. Un adolescente conosce oggi dell’universo attorno a sé più di Galileo, Darwin e Fermi. Ognuno può avere accesso a una grande quantità di conoscenza, riservata in passato a ristrette categorie e classi sociali. Possiamo comunicare, scambiare opinioni e confrontare idee su scala globale, velocemente e senza costi. La diffusione della conoscenza e la libertà di comunicazione globale sono, dunque, presìdi preziosi di democrazia e di consapevolezza cui non intendiamo rinunciare. Tuttavia, accanto agli immensi benefici apportati dalle tecnologie digitali, nuovi e irrisolti problemi si affacciano all’orizzonte. Che dire, ad esempio, del tema del diritto alla privacy, al quale, forse non del tutto consapevolmente, stiamo rinunciando? Le grandi aziende digitali analizzano le nostre ricerche su web, influenzano le nostre relazioni nelle reti sociali e le nostre decisioni, tracciano i nostri spostamenti, mutano i canali del commercio e si accingono a entrare nelle nostre case con dispositivi che interagiranno nella nostra intimità con il supporto dell’intelligenza artificiale. Per non dire delle informazioni più sensibili, come la salute, le convinzioni religiose, le opinioni politiche, la vita sessuale. Sulla scorta dei big data, gli algoritmi digitali possono estrarre su di noi informazioni puntuali e complete, di cui noi stessi non abbiamo contezza. I servizi digitali sono spesso gratuiti, ma quando non paghiamo per un servizio è possibile che noi stessi diventiamo il prodotto venduto. E che dire della concentrazione di ricchezza in capo ai titani della Silicon Valley? Nell’opinione pubblica e nella politica europea e americana vi è il timore che già ora la concentrazione di potere sia all’origine di un’influenza economica e politica di difficile controllo. E nascono proposte bipartisan volte a limitare le ingiuste, ancorché formalmente legittime, tecniche di pianificazione fiscale globale. La Commissione europea ha rilevato che tre anni fa Apple ha pagato in Irlanda tasse nella misura dello 0,005% contro una tassazione regolare del 12,5%.

Per sostenere chi perde il lavoro in conseguenza dell’automazione, alcuni economisti propongono di tassare i robot. Tuttavia tassare la tecnologia ne frenerebbe la diffusione. Meglio sarebbe, in accordo a una sensibilità politica di equità e giustizia sociale, individuare un’equa fiscalità per le aziende digitali. Nelle economie sviluppate, dove la crisi economica ha colpito duramente il ceto medio, la disuguaglianza è in rapida crescita. Per effetto di nuovi settori dell’economia inesistenti solo pochi anni fa, come la app economy, sono stati creati nuove posizioni lavorative, ma spesso precarie e sottopagate, come nelle professioni della cosiddetta gig economy.

Poco più di un mese fa l’Autorità dei trasporti di Londra ha cancellato il rinnovo della licenza di Uber. Con base a San Francisco e concorrente dei servizi di taxi, Uber è uno dei maggiori casi di successo tra le piattaforme digitali. È presente in sessanta Paesi ed è valutata 70 miliardi di dollari, il triplo di Fiat-Chrysler. Ma a Londra Uber è stata dichiarata non idonea a svolgere il servizio per una condotta priva di sufficiente responsabilità sociale in tema di sicurezza e trasparenza e per una cultura aziendale discriminatoria nei confronti dei conducenti, pagati a ore e privi di tutele assicurative e previdenziali.

Sviluppare alta tecnologia e fornire servizi straordinariamente innovativi non giustifica il mancato rispetto di regole di convivenza costruite in una lunga storia di civiltà. Non c’è solo il problema dell’assicurare il lavoro a tutti, va anche garantita la dignità del lavoro, quella stessa dignità che ci rende parte di un grande disegno e che valorizza il nostro ruolo come uomini, prima ancora che come esecutori. Lo sviluppo delle tecnologie non può prescindere dalla centralità della persona e dall’apporto delle complesse vicende umane, culturali e sociali che caratterizzano la storia dell’umanità. A ben pensarci, a cosa serve tutta la nostra tecnologia se accresce ingiustizia e disuguaglianza?

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