Se la politica
dimentica la legalità

Nel dibattito pubblico di queste ultime settimane i toni si sono fatti sempre più acuti. Fino a diventare una cacofonia stridente. Gli elementi principali in campo sono quelli consueti. Le critiche virulente contro la «casta» e le contrapposte accuse di «populismo». Di parzialmente nuovo vi è l’incrocio tra i due aspetti del confronto. Basti un esempio. Il caso Dessì (candidato dei 5 Stelle che paga un affitto di casa di 7 euro al mese) scalfisce seriamente l’immagine di un partito che pretende di presentarsi come del tutto diverso dagli altri, ma si trova impigliato a sua volta nella logica dei privilegi e delle storture.

A cadere – sotto la dura scure dei fatti – è, in definitiva, l’idea che il marcio alberghi soltanto tra i governanti e che il «popolo» abbia il candore dell’innocenza. Nulla di più astratto. Nessuno dimentica, ovviamente, che negli ultimi decenni – e con ritrovata virulenza negli anni più recenti – una fetta cospicua del ceto politico abbia mostrato di essere ben lontana dalle caratteristiche che si addicono a chi governa. Dal lato opposto, la società civile mostra evidenti segni di progressiva slabbratura nei comportamenti. Detto in estrema sintesi, si avverte un preoccupante calo di tasso etico, calo che coinvolge la società nel suo insieme.

I fenomeni di corruzione, o semplicemente di scostamento dai principi di moralità che dovrebbero contrassegnare tanto le responsabilità pubbliche quanto i comportamenti privati, sembrano attraversare le maglie del tessuto sociale senza trovare argine sufficiente. Alla base di tale permeabilità vi è una filiera fatta di comportamenti criminogeni, di connivenze palesi e occulte, di rassegnata sottomissione allo stato delle cose, o anche soltanto di sguardo rivolto altrove. Da questa spirale perversa – nella quale le colpe finiscono per diluirsi nell’indistinto del «non sapevo, non volevo, non mi ero accorto» – si può uscire in due modi. Il primo rinvia alla leggendaria autodifesa fatta in Parlamento da Bettino Craxi al tempo di Tangentopoli: «Tutti colpevoli, nessun colpevole».

Scelta che invece di frenare la voragine del malcostume, l’ha allargata in forma di cratere. L’altro modo per uscirne consta nella presa di coscienza che nessuno può e deve sottrarsi all’obbligo di farsi carico del proprio fardello di errori e di omissioni. Soltanto ripartendo da una severa «autocritica civile» si potrà sperare di ridare fiato alle forze migliori della nostra società, di restituire alle tante persone perbene l’orgoglio di essere tali. Naturalmente, è indispensabile partire da un presupposto, che troppo spesso si dimentica, preferendo cadere nelle generalizzazioni e nella comodità dei luoghi comuni: le responsabilità non sono le stesse, quasi mai e in nessun luogo. Serve uno sforzo di riflessione. Soltanto chi ha il coraggio di riconoscere i suoi errori può alzare la bandiera del riscatto civile.

Questi temi diventano caldissimi nella fase del confronto elettorale e in vista del voto, espressione massima della partecipazione democratica e della sovranità popolare. Nel confronto in corso tra le forze politiche colpiscono due elementi. Nessuno (o quasi) ammette di avere fatto sbagli; nessuno mette adeguatamente in luce il fattore chiave dell’orizzonte nel quale andrebbero calate le proposte di governo: la legalità. Eppure, si tratta di un elemento assolutamente decisivo. È sufficiente rifletterci un attimo. Proporsi, ad esempio, di focalizzare il progetto politico sul lavoro, sulla tutela delle fasce deboli, sulla lotta alle iniquità sociali, finisce per diventare un vaniloquio in assenza della legalità (effettiva, vissuta, praticata), che è il cardine della convivenza civile. Se non si mette al centro del confronto pubblico la questione della legalità, qualunque proposta politica si dimostrerà un’anatra zoppa.

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