Se la giustizia mostra
il volto più feroce

La legge come insulto all’etica civile e come segno di totale mancanza di buon senso. Una vicenda dalla quale trasuda, oltre alla disumanità di fondo, l’immagine di un Paese sbilenco, nel quale le ragioni si mutano in torti e sembra prevalere la logica di un potere sordo e cieco. Sordo all’ascolto dei bisogni, cieco nel prendere decisioni che si riflettono pesantemente sull’esistenza delle persone. Peppina Fattori (95 anni) si vedrà demolito un piccolo chalet di legno – costruito a spese della famiglia su un terreno di loro proprietà – nel quale abitava dopo che il terremoto di un anno fa l’aveva costretta a lasciare la sua casa, dichiarata inagibile.

Dopo una vicenda che ha del paradossale, è arrivata la sentenza: lo chalet deve essere demolito perché manca l’autorizzazione paesaggistica. Se non ci fosse da piangere, verrebbe da ridere, dice un vecchio proverbio. Nel mentre gran parte degli abitanti delle zone colpite dal terremoto del Maceratese ancora non riesce a rientrare nelle case, la giustizia, veloce, ferrea, implacabile raggiunge e snida una vecchietta che non ha chiesto un’autorizzazione prevista dalla legge di tutela del paesaggio. Quello stesso paesaggio nel quale, da un anno, campeggiano le macerie.

Di fronte a una vicenda del genere cosa si può dire? Certo, esiste l’esigenza di tutela del bene paesistico e paesaggistico. E a garantire tale tutela vi sono leggi apposite, meritorie nelle finalità per le quali sono state varate. Ma esistono anche altri beni da salvaguardare. Nel caso presente il diritto a vedere tutelata la dignità umana e le condizioni di vita di una persona molto anziana. Quella casetta è stata costruita per sottrarre un’anziana a condizioni di enorme precarietà, violando una norma di tutela del paesaggio. Ma quella violazione andava commisurata all’esigenza di tutelare concretamente un bene primario.

Il vero nodo sono i «diritti negati». La Procura della Repubblica e il Tribunale del riesame hanno preso una decisione palesemente ingiusta. Un provvedimento con il quale la giustizia ha mostrato il suo volto più tetro e feroce: una giustizia che sa essere implacabile principalmente contro i deboli, contro coloro che, per ragioni diverse, non sono attrezzati a difendersi adeguatamente e le cui ragioni non trovano ascolto adeguato. Si sarà, ci deve essere, qualcuno – all’interno della stessa magistratura – che si prenda la responsabilità di cancellare una decisione che non soltanto è contraria al senso comune, ma è anche uno schiaffo ai principi più elementari di equità sociale. Se ciò non dovesse accadere, a uscirne ammaccata non sarà soltanto la reputazione dei magistrati, bensì la credibilità della giustizia. Ci troviamo, infatti, di fronte a un caso eclatante di legalità illegale, di arbitrio legale da parte di un potere pubblico. Da molti anni si discute dell’intrinseca «politicità» dell’attività giudiziaria, derivante dal fatto che il magistrato è chiamato a giudicare, valutando – sempre nel rispetto della legge – le implicazioni sociali, civili, morali della sua decisione. Se ciò è vero, i magistrati avrebbero dovuto valutare lo stato di bisogno della signora alla quale è stato imposto lo sfratto e la demolizione della casetta.

Oggi i suoi parenti sono costretti a invocare un diritto «naturale», a ricorrere a qualche autorità superiore di uno Stato patrigno. Anzi, di uno Stato nemico, lontano dalle persone, incapace di ragionare in termini di buon senso. Forse un Solone del diritto spiegherà alla vecchietta, ai suoi parenti affranti, a noi tutti, che «esiste una norma». E – ironia della sorte – non c’è nemmeno la possibilità di sperare che ci sia un giudice a Berlino, perché è stato proprio un giudice a volere questo obbrobrio civile.

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