Se la buona cultura
soccorre l’economia

Però, gli americani. Da noi negli States, disse un ministro del Lavoro dell’amministrazione Clinton in visita a Roma, la cultura riceve parecchie attenzioni, ma spesso non è chiamata cultura. Mentre snocciolava strabilianti dati di crescita in comparti chiave (cinema, musica, editoria) il suo orgoglio non era altezzosamente, elitariamente intellettuale: «Ci fa piacere, ma in realtà non lo pensiamo come una produzione culturale». Perché? «Forse dipende dal nostro background piuttosto mercenario: per noi sono prodotti, equivalenti a un altro prodotto».

Secoli di Rinascimento, umanesimo, barocco e classicismo di ritorno ci fanno guardare con aristocratico sussiego a questo «background mercenario», ed è un peccato, perché invece ci sarebbe utilissimo. In Italia la cultura vive nel mondo delle idee e disdegna la partita doppia. Per questo i ragionieri la lasciano volentieri ai filosofi e i politici la trattano come Cenerentola. Cioè male. L’ultimo equivoco è di pochi giorni fa. Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, ha inveito contro il direttore del Museo Egizio di Torino: «Questa è discriminazione al contrario». Motivo di tanta bile? La campagna «Fortunato chi parla arabo», rivolta ai «cittadini di lingua araba» che per quattro mesi possono entrare al museo in due al costo di un biglietto intero. È il secondo anno che si fa, il primo fu un successo e i visitatori aumentarono (non funzionò, invece, con i cinesi).

Il direttore ha spiegato alla Meloni che il primo obiettivo dei musei è farsi visitare, cercando di avvicinare anche le persone meno interessate. E le ha chiesto se intendesse protestare anche per gli sconti alle coppie a San Valentino o l’ingresso gratuito nel giorno del compleanno. Quando il polverone si è abbassato, qualcuno si è accorto che il Museo Egizio è un’azienda che funziona benissimo: 800 mila visitatori in 12 mesi; 9,5 milioni d’incasso, con un ricavo netto di 810 mila euro investiti in quattro fondi che corrispondono a altrettanti progetti. Manna dal cielo, per un’istituzione che deve fare i salti mortali per non gravare sulle casse pubbliche. Chi l’ha detto che un commercialista non può innamorarsi della Gioconda? Chi ha detto che la cultura non dà da mangiare? L’industria culturale italiana sta producendo ogni anno un valore aggiunto di circa 90 miliardi di euro, ossia il 17 per cento del valore aggiunto nazionale e il 6 per cento del Pil italiano, garantendo lavoro a un milione e mezzo di persone. Accade anche a Bergamo, dove merita una riflessione la lirica 2.0 di un direttore artistico rivoluzionario, Francesco Micheli. Per dirla alla Jovanotti, ha preso Donizetti e ne ha fatto molto di più. Quello del musicista era diventato un nome per addetti ai lavori, sta diventando un brand. Nazionalpopolare. La Donizetti Night porta in strada, nelle notti già calde di inizio estate, quarantamila persone, quasi la metà straniere. Crea identità, fa girare l’economia.

Se uno non conosce questi numeri, questi eventi e la logica che sta loro dietro, farà fatica a capire perché a Bergamo la cultura tocca cifre da record: per ogni abitante è stato calcolato il Pil in 483 euro, più della media lombarda e il doppio di quello nazionale (254 euro). E ogni euro di valore creato nel settore cultura genera ulteriori 1,8 euro di valore aggiunto nell’economia cittadina. E neppure può capire perché da Roma adesso arriverà un milione di euro, per Donizetti, mentre prima dovevamo accontentarci delle briciole. Fa riflettere anche un’altra rissa di questi giorni. Un candidato grillino, ex Jena, no Vax, invitava al confronto pubblico un medico. La risposta lapidaria del medico: «Se parliamo di vaccini, ci sono due possibilità: lei si prende laurea, specializzazione e dottorato e ci confrontiamo. Oppure, più comodo per lei, io spiego, lei ascolta e alla fine mi ringrazia perché le ho insegnato qualcosa. Uno non vale uno». Il tono non ispira simpatia, ma la sostanza resta, e pesa. L’ignoranza nuoce gravemente alla salute della democrazia. Già nel 1945 Norberto Bobbio metteva in guardia dall’illusione di quella che lui chiamava «tecnica apolitica», perché dietro ci vedeva all’opera il politico incompetente che non è in condizione di prendere buone decisioni perché è privo delle conoscenze necessarie. Anni di studio e pratica sul campo non valgono una spolverata di Google.

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