Se il cerino populista
rimane all’Italia

Solo sei mesi fa, uno spettro populista si aggirava per l’Europa e – a causa della sorpresa Trump – in tutto l’Occidente democratico. Era una specie di piovra trasversale capace di assumere sembianze diverse, comprese quelle della destra più estrema. Con Trump, era nato il sovranismo, subito attecchito per imitazione in Italia sotto le insegne di Salvini e Meloni, con connotazioni antieuropee riprese poi in altri Paesi dell’Unione, incoraggiati dall’esito della Brexit. Si parlava di Francexit e naturalmente di Italexit, incuranti dell’insegnamento greco, dove l’antesignano Tzipras, pur bastonato da Bruxelles, si è sempre guardato bene dal chiedere l’uscita dall’euro e dall’Europa.

Un esempio che avrebbe dovuto far riflettere soprattutto i pellegrini italiani che erano andati in Grecia per acclamare il nuovo faro della sinistra estrema, oggi diventato un moderato amministratore della sua crisi nazionale, probabilmente un perdente. Poi, sono arrivate le repliche della storia del 2017. Battuto il filonazista in Austria, pesantemente ridimensionato l’estremista di analogo colore in Olanda, umiliata due volte la «sicura» vincente Le Pen, letteralmente azzerato l’inglese Farage (lo statista che Di Maio invidiava), raffreddati in Spagna dal realismo cristiano democratico i furori dei Podemos (vincitori nelle comunali di Madrid e Barcellona, ma poi scesi a percentuali imbarazzanti nelle stesse città), scomparsi in Germania gli speranzosi estremisti anti Merkel. Infine la misera fine della hard Brexit della May, costretta ad elemosinare voti da improbabili nazionalisti irlandesi un po’ retrò, per non dire peggio. Al netto delle enclave razziste ancora presenti in Ungheria e Polonia, pare dunque che il cerino acceso sia passato di mano in mano fino a varcare le Alpi. Tocca a noi vedercela con le versioni nostrane di tutto questo panorama di macerie europee. Ma ce lo meritiamo? Cosa possiamo fare per evitare questo primato non esaltante, evitando di perdere anni per mettere alla prova il mito del reddito di cittadinanza, prosciugando intere politiche economiche?

Non deve ingannare l’esito delle amministrative di domenica, che sono state un flop assai pesante almeno per la versione grillina del populismo e hanno certamente segnalato un comportamento diverso degli elettori esasperati un anno fa da una rabbia profonda e decisiva, persino in una città ben amministrata come Torino. Ma, questa volta, ha contato di più la legge elettorale dei Comuni, che accende i riflettori sulla qualità dei candidati e richiede – già al primo turno e tanto più al secondo – convergenza innanzitutto interna delle forze tradizionali, mancata clamorosamente a Roma nel 2016. È in fondo anche l’esito delle parallele elezioni francesi che – nel maggioritario a doppio turno – penalizzano gli estremismi o la protesta inconcludente, e questo in verità da sempre, ben prima dell’avvento della stella Macron. Mancando questa legge, ostinatamente combattuta per le elezioni parlamentari, il problema populismo resta aperto in Italia in tutta la sua drammaticità, ma se c’è un Paese che ha bisogno di stabilità, unità, vicinanza alle politiche europee, questo è proprio il nostro. Non ci sono margini per farci del male e non pagare il relativo prezzo.

Ma questo accadrà, se di nuovo si voterà in Italia senza poter guardare in faccia i candidati, trascinati solo dalle risse televisive e non dalla consapevolezza severa degli interventi necessari ed urgenti (vedi nuova legge di Bilancio), dando sfogo a motivate ragioni di insoddisfazione, certamente, ma aggravandole scegliendo una classe (non) dirigente, considerata inadatta a guidare un Comune, figuriamoci un Paese del G7.

Nonostante tutto ciò, la legge elettorale non si riesce a farla, anzi la si lascia fare alla Magistratura e si insiste su questioni – come le liste bloccate – che, al di là della sfiducia verso la capacità di scegliere degli elettori, trasferiscono le scelte sui capi nazionali, lasciando tutto il resto nella palude che abbiamo visto ancora in questa legislatura, con 391 cambi di casacca dovuti quasi sempre all’inseguimento di posizionamenti non del proprio elettorato, ma di chi ti ricandida. E il triste è che tutto questo lo chiamano ritorno alla Prima Repubblica, mentre in quasi 50 anni, sono solo 11 i casi di parlamentari che hanno cambiato partito, trovandosi eventualmente in difficoltà a doverlo spiegare a un elettorato che incontravano in piazza il sabato e la domenica.

In teoria, c’è ancora tempo per fare una legge che rafforzi un legame con la rappresentatività, migliorando anche l’altra questione aperta, quella della governabilità. Ma innanzitutto occorre mandare un messaggio chiaro, non una mediazione con il populismo, come nella campagna referendaria. I migliori leader del mondo libero sono oggi Macron, Merkel e il canadese Troudeau. Non hanno mai avuto bisogno di attaccare la politica, per battere l’antipolitica.

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