Se i giovani lombardi
emigrano per lavoro

I migranti siamo noi. In genere quando si parla di migrazioni siamo abituati a leggere rapporti su chi arriva. Questa volta la Fondazione Migrantes, espressione della Conferenza episcopale italiana, invece parla di chi parte. Del resto i numeri sono una notizia: nel 2016 se ne sono andati 48.600 giovani nella fascia di età tra i 18 e i 34 anni. Rispetto al 2015 c’è stato un aumento del 23,3%. Scendendo nel dettaglio da gennaio a dicembre 2016, le iscrizioni all’Aire (l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero) per solo espatrio sono state 124.076 (più 16.547 rispetto all’anno precedente, in percentuale più 15,4%), di cui il 55,5% (68.909) maschi.

Oltre il 39% di chi ha lasciato l’Italia nell’ultimo anno ha un’età compresa tra i 18 e i 34 anni. Ed è un fenomeno che non riguarda più soltanto i giovani: si registra infatti una crescita della fascia tra i 50 e i 64 anni, cioè quella dei disoccupati senza sbocchi che legano alla «fuga» oltre confine la speranza di poter trovare un lavoro con cui mantenersi e mantenere le persone che sono ancora a loro carico. I ricercatori segnalano il fenomeno dei nuclei famigliari che emigrano, sia quelli che comprendono anche i minori sia la famiglia «allargata», quella cioè in cui si uniscono anche i genitori/nonni - ormai oltre la soglia dei 65 anni – che assumono la funzione di «accompagnatori e sostenitori» del progetto migratorio dei figli (il 5,2% del totale).

Le ragioni sono ben note. La crisi in tutto il mondo ha colpito in particolare il ceto medio e in Italia le cose non sono andate diversamente, anche se le famiglie da noi hanno potuto spesso reggere meglio per la loro tradizionale predisposizione al risparmio che le ha protette negli anni della crisi. Ora probabilmente sta accadendo che questa riserva in molti casi si stia esaurendo e questo potrebbe spiegare il picco di migrazioni in fasce di età che negli anni passati erano immuni dal fenomeno. Per quanto riguarda i giovani il discorso è ben noto: poche opportunità, condizioni lavorative spesso punitive e senza reali prospettive di crescere e di immaginare così un futuro. Tra i dati che la Fondazione Migrantes ha reso noto ce n’è però uno particolarmente preoccupante: la Lombardia, con quasi 23 mila partenze, è la prima regione per numero di persone che hanno lasciato l’Italia alla volta dell’estero. Non è un fatto nuovo, ma nel contesto che stiamo vivendo di ripresa e di uscita dalla crisi, è un fatto che deve far pensare. I giovani che se ne vanno via dalla Lombardia, non se ne vanno soltanto perché si vedono le strade chiuse davanti. Bene o male questo è un territorio di richiamo per i ragazzi di tante altre regioni, che qui sanno o sperano di poter trovare uno sbocco.

Se un ragazzo se ne va dalla regione che è il traino dell’economia italiana e che si è modernizzata come nessun’altra regione italiana, i motivi devono essere altrove. Provo a indicarne due. Il primo è il percorso comunque troppo punitivo che un ragazzo deve affrontare entrando nel mondo lavorativo: non si tratta solo di questioni economiche, ma ad esempio di orari che tolgono tempo ad ogni altra attività, compresa la vita di famiglia, o anche di chiusura di spazi nella progressione di carriera. Al secondo motivo forse si è pensato meno: le università italiane, in particolare quelle tecniche, economiche e scientifiche preparano molto bene i giovani. E sul mercato del lavoro globalizzato oltre i confini in molti se ne sono accorti. Quindi andando all’estero si trovano riconoscimenti al proprio sapere acquisito molto più che in Italia. Per il nostro Paese è una perdita doppia, visto che la loro formazione è stata pagata da noi e ora diventa la ricchezza di altri.

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