L'Editoriale
Martedì 02 Agosto 2016
Se i concorsi pubblici
bloccano i migliori
Il Rapporto della Banca d’Italia su «incentivi e selezione nel pubblico impiego» è fin troppo prudente nell’affermare che i concorsi «non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato». La questione, infatti, tocca una delle piaghe più dolenti del sistema pubblico italiano: la qualità della selezione del personale. In particolare dei gradini medio/alti (funzionari e dirigenti). La ricerca si sofferma prevalentemente, con dati e considerazioni assai pertinenti, su aspetti econometrici e organizzativi; qui si proverà a mettere in rilievo altri aspetti.
Come è noto, l’obbligo del concorso pubblico è sancito da una norma costituzionale. Vincolo che potrebbe anche essere rimosso (si sono fatte riforme costituzionali su aspetti ben più rilevanti). Il concorso pubblico è stato il criterio base per accedere all’impiego pubblico fin dagli esordi dello Stato nazionale, ma già un secolo fa si sostenne che - a causa di tale sistema - la «carestia di uomini di valore» nei pubblici uffici si era fatta «sempre più evidente e tormentosa». L’architrave logico, e giuridico, di tale impostazione è l’aspetto garantistico: il concorso è (almeno dovrebbe essere) un baluardo contro l’arbitrio. Poiché le organizzazioni pubbliche sono sotto il comando politico, l’esigenza di un criterio selettivo imparziale non è eludibile. In realtà, il vero problema non è nella validità del criterio, quanto piuttosto nel modo nel quale esso viene pensato e gestito. Se si guarda all’andamento nel tempo, si può tranquillamente concludere che il concorso è stato tradizionalmente pensato come strumento utile a valutare saperi. Spesso, ancor peggio, a valutare la quantità di nozioni in possesso dei concorrenti. Salvo rari casi – relativi a profili di natura squisitamente operativa – le attitudini, le capacità personali, nonché altri fattori di natura comportamentale hanno avuto peso scarso, se non addirittura nullo, nella selezione e nella valutazione.
Alcuni fatti sono incontrovertibili. I concorsi sono molto costosi e quasi sempre hanno una durata esageratamente lunga, due fattori che vanno a braccetto e che si autoalimentano. Su entrambi si potrebbe intervenire senza eccessive difficoltà, snellendo le commissioni di concorso e affidandole normalmente a dirigenti e funzionari non più in servizio. Più spinosa la questione delle modalità e dei contenuti. I tentativi di migliorare i criteri di selezione sono stati innumerevoli, ma non si è sfuggiti all’errore di fondo: «Prove scritte e orali, prevalentemente volte - come osserva la Banca d’Italia - a testare conoscenze teorico-nozionistiche». Su questo terreno l’inversione di rotta deve essere radicale, partendo dal ricambio di coloro che scrivono i bandi di concorso. Occorre, quindi, cercare le strade per migliorare i meccanismi di selezione, ancorandoli il più possibile a due fattori: un’accurata analisi di cosa serve e un’attenzione specifica alle attitudini dei concorrenti. Il primo fattore è nelle mani delle amministrazioni; il secondo si affronta modificando radicalmente contenuti e modalità delle prove di valutazione e scegliendo con estrema cura i valutatori. Al riguardo, merita una menzione specifica il sistema di selezione per l’ingresso nelle carriere dirigenziali (un corso-concorso, che prevede una robusta fase di passaggio mirata a preparare all’esercizio della funzione). Una modalità che ha dato buoni frutti e che può essere svolta in modo appropriato soltanto da specifiche istituzioni di formazione del sistema pubblico.
Ripensare i meccanismi di selezione per gli uffici pubblici è un passaggio indispensabile per permettere il salto di qualità nel funzionamento della macchina pubblica. È auspicabile che dalle stanze del Dipartimento della funzione pubblica escano soluzioni adeguate. Che di certo non sono facili. In merito Oscar Wilde affermava: «Per ogni problema complesso c’è sempre una risposta semplice. Quasi sempre sbagliata».
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