Se al medico viene
tolta la coscienza

Quello che si temeva si è verificato, il testo di legge sulle disposizioni anticipate di trattamento (Dat) è stato approvato dal Parlamento italiano senza emendamenti, lasciando alcuni punti critici che erano stati segnalati con preoccupazione in fase di discussione e che adesso diventano una realtà da affrontare da parte delle istituzioni sanitarie, cattoliche e non, dato che nella legge è chiaramente previsto che «Ogni struttura sanitaria pubblica o privata garantisce con proprie modalità organizzative la piena e corretta attuazione dei princìpi di cui alla presente legge, assicurando l’informazione necessaria ai pazienti e l’adeguata formazione del personale». Uno di questi punti critici è, dunque, come dovranno rispondere le strutture sanitarie cattoliche a fronte di quello che la legge richiede. Infatti, mentre nel caso dell’aborto la legge 194/78 prevedeva che l’interruzione della gravidanza «è praticata presso ospedali generali e può essere praticata in strutture private autorizzate» se i rispettivi organi di gestione ne fanno richiesta, nel caso di questa legge non è prevista alcuna clausola o obiezione di coscienza da parte del medico per cui questo «è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale».

È evidente la difficoltà in cui si troveranno i medici cattolici a fronte anche di una chiara indicazione che dà la Nuova Carta degli Operatori Sanitari: «Il medico non è un mero esecutore, conservando egli il diritto e il dovere di sottrarsi a volontà discordi dalla propria coscienza [...]. Nessun operatore sanitario può farsi tutore esecutivo di un diritto inesistente, anche quando l’eutanasia fosse richiesta in piena coscienza dal soggetto interessato». Si dirà che l’eutanasia non è legale nel nostro Paese e dunque non potrebbe essere comunque richiesta dal paziente, ma il pericolo nascosto è che la Dat possa prevedere di sospendere trattamenti efficaci per sostenere la vita di una paziente, trattamenti che il medico ha il dovere professionale di applicare e dei quali il paziente che privo di coscienza non può rendersi ora conto.

Assecondando pedissequamente questa richiesta il medico attuerebbe di fatto una eutanasia «passiva» omettendo non solo quei trattamenti utili e proporzionati, richiesti dalla buona pratica clinica, ma anche tutto il contestuale dialogo terapeutico finalizzato a pianificare insieme al paziente il miglior orientamento clinico-assistenziale che scaturisce proprio dall’incontro tra due autonomie, quella della coscienza del medico e quella della fiducia del paziente nell’opera del medico.

Come «limitazione del danno» diventa perciò opportuno che ora ogni struttura sanitaria definisca una policy aziendale che in modo proattivo renda pubblici gli interventi che intenderà offrire in prospettiva dell’accompagnamento dei pazienti nel fine-vita, quasi una sorta di «dichiarazioni anticipate aziendali». Una esperienza analoga è stata da tempo adottata negli ospedali cattolici americani che hanno dovuto affrontare la stessa problematica quando negli anni ’90 venne approvata la legge federale sulle Dat. Nelle Direttive etiche e religiose per gli ospedali cattolici, la Conferenza Episcopale Statunitense indicò chiaramente che «in accordo con la legge federale i pazienti saranno informati sui loro diritti a redigere disposizioni anticipate di trattamento. Tuttavia non saranno onorate Dat contrarie all’insegnamento cattolico. Se una Dat confligge con tale insegnamento si spiegherà ai pazienti il perché lì non verrà data attuazione».

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