Se a Londra prevale
il voto viscerale

A mano a mano che il referendum del 23 giugno sul Brexit si avvicina, si configura sempre più come un classico caso di «voto cerebrale» contro «voto viscerale». Quasi tutti, dal premier Cameron al presidente Obama, dalla presidente del Fmi Lagarde ai grandi finanzieri, dai capi delle multinazionali alla Banca d’Inghilterra, pronosticano che l’uscita della Gran Bretagna dalla Unione Europea provocherebbe gravi danni su tutti i fronti.

Calo del Pil fino al 6%, costi aggiuntivi annui di 5.000 euro a famiglia, ridimensionamento della City come capitale finanziaria d’Europa, riduzione degli scambi commerciali con il continente, nuovo tentativo della Scozia di conquistare l’indipendenza da Londra, possibile perdita del seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza, fuga verso altri lidi di molte grandi aziende che oggi hanno il loro quartiere generale nella capitale britannica. All’allarme di buona parte dei politici, di destra e di sinistra, si è aggiunto nei giorni scorsi quello di ben tre ex capi dei servizi segreti, i quali temono che anche solo un allentamento della collaborazione con i colleghi europei avrebbe come effetto un aumento della minaccia terroristica.

Un quadro che non è esagerato definire catastrofico, cui i leader del Brexit hanno pochi argomenti da opporre sul piano razionale, e talvolta scadono perfino nel ridicolo, come quando l’ex sindaco di Londra Boris Johnson ha paragonato il tentativo della Ue di unificare il continente a quelli di Hitler.

La loro propaganda si basa soprattutto sulla paura di una invasione di migranti, sull’impatto negativo della presenza di tanti stranieri sui servizi sociali, sulle eccessive interferenze di Bruxelles, e in particolare della Corte di Giustizia europea, nella legislazione britannica, e anche sulla nostalgia per un ruolo mondiale che non esiste più. I (molti) conservatori che si sono schierati a favore del Brexit, compresi alcuni autorevoli ex ministri di Cameron, hanno finito con l’allinearsi sulle posizioni isolazioniste e populiste dell’Ukip di Nigel Farage, che è ben rappresentato a Strasburgo (dove fa gruppo con la Lega), ma che, pur dando voce al vasto bacino degli scontenti, a causa del sistema uninominale a Westminster conta un unico rappresentante.

Come si spiega, allora, che – stando ai sondaggi – il numero degli elettori favorevoli alla permanenza del Regno Unito nella Ue e quello dei fautori di una immediata fuoruscita si equivalgano e che il referendum si risolverà in un testa a testa dall’esito incerto? Come mai le importanti concessioni strappate da Cameron a Bruxelles all’inizio dell’anno, come la cancellazione per la Gran Bretagna della clausola della «unione sempre più stretta», non hanno avuto alcun effetto sull’opinione pubblica?

Per capirci qualcosa, bisogna analizzare la composizione dei due schieramenti. A favore del Brexit è schierato il 70% degli ultracinquantenni, cioè dei cittadini più nostalgici del passato, memori delle battaglie sostenute da MacMillan e Heath per entrare nell’Ue contro l’opposizione francese, degli scontri della Thatcher per una più equa ripartizione dei costi. Per la permanenza in Europa sono invece due terzi dei giovani, i quali hanno avuto più modo di rendersi conto dei vantaggi dell’Unione. Solo se – contrariamente al solito – questi andranno a votare più numerosi dei loro padri e nonni, portando la partecipazione a oltre il 60%, il Brexit potrà essere sconfitto.

Uno dei paradossi è che la leadership di entrambi i grandi partiti, più i liberali e gli indipendenti scozzesi, si battono per restare nell’Unione. Dovrebbe bastare a decidere la partita, ma non è così; e con il passare delle settimane cresce il sospetto che i laburisti, pur facendo campagna per il no, segretamente sperino in una vittoria del Brexit per costringere Cameron alle dimissioni.

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