Salario minimo
Nodo contratti

Sembra facile e persino logico ed equo parlare di salario minimo fissato per legge, come si fa in questi giorni in Parlamento, ma vista più da vicino la questione è molto più complicata e spinosa, e in qualche caso l’obiettivo della giustizia salariale è rovesciato nel suo contrario. Sul tema, c’è una divergenza antica tra la politica, che lo ha reso legge in 22 Paesi europei su 28, e le parti sociali che non lo vogliono, e anche per ovvie ragioni di ruolo preferiscono la libera contrattazione, cioè un confronto che si chiude con una mediazione.

I contratti ufficialmente sono quasi 900 e coprono quasi tutti i lavori, anche talvolta con discutibili accordi pirata che prevedono retribuzioni assai basse, anche di 4-5 euro orari. Secondo le parti sarebbe semmai questo l’angolo buio da illuminare. Esiste poi una residua platea di lavoratori senza contratto, e sono in genere anche i meno tutelati, come quelli dei nuovi mestieri, esempio tipico i riders. Qui è d’obbligo un rimedio allo sfruttamento, ma non si può neppure generalizzare, perché nelle piccolissime imprese, altra area fuori contratto, il salario è un punto di incontro ragionevole e condiviso tra datore e salariato.

Sembra dunque di buon senso non entrare a gamba tesa su un tema complesso, e cercare di tenere insieme il salario minimo con la contrattazione e la rappresentatività sindacale. Concretamente, comunque, di cosa stiamo parlando? Secondo la proposta 5 Stelle sono 9 euro lordi, secondo quella Pd sempre 9 euro, ma netti. Per capire meglio, basti dire che i minimi tabellari presenti nei contratti industriali valgono circa 7,5 euro lordi (7,17 nei servizi, 6,08 nell’agricoltura). Parlare di 9 euro elimina di fatto lo spazio sopra il minimo destinato al merito. L’Istat ha calcolato che, sotto i 9 euro lordi, c’è il 22% dei lavoratori, che diventano addirittura circa il 50% per i 9 euro netti del Pd. Per adeguarli anche solo al livello grillino, sarebbe necessario un incremento per 2,9 milioni di persone, con un incremento di 1.073 euro anno, e crescita del monte salari di 3,2 miliardi. Un dato medio, perché colf e badanti avrebbero diritto ad un 230% in più (e infatti già popolano il terreno nero).

Come possa reagire il sistema a un irrigidimento sui salari è difficile valutarlo, fermo restando che in Italia le retribuzioni sono basse e gravate da un cuneo fiscale che neppure gli 80 euro renziani hanno reso meno gravoso. In Germania, con il salario obbligato, le imprese hanno ridotto gli scatti di anzianità, ma noi italiani siamo quelli del lavoro nero e l’effetto congiunto di un salario minimo alto e di un reddito di cittadinanza promesso a 780 euro, stringe in una morsa le retribuzioni. Se il sussidio sfiora o addirittura supera quelle regolari (il 30% degli italiani guadagna quanto la paghetta di Stato), e se il salario minimo supera le previsioni contrattuali, la tentazione diventa la fuga nel nero, con una convergenza d’interesse delle parti a usare l’ombrello del sussidio per mandare in territorio sommerso il conguaglio. Si teme addirittura un’uscita di lavoratori regolari a basso salario verso il reddito di cittadinanza integrato dal nero, e il freno a questa tentazione è solo la precaria provvisorietà del sussidio, che ha infatti rallentato le adesioni. Il problema vero è che un salario minimo per legge appartiene ad una concezione in qualche modo dirigista, mentre il confronto flessibile tra le parti sta dentro una logica di mercato, e poi nei rapporti di lavoro più moderni la retribuzione non è tutto, e la parte riservata alle provvidenze connesse, in genere di welfare, è sempre più rilevante.È stato un progresso, che potrebbe fermarsi.

Ancor più in generale, l’evoluzione dei rapporti tra le parti sociali ha fatto intravedere negli ultimi anni qualcosa di nuovo, sintetizzato nello slogan «patto della fabbrica», che dovrebbe andare ben al di là di una visione burocratica della contrattazione, lasciando spazio a livelli diversi di relazione, sia settoriale, sia di fabbrica, che territoriale. Un effetto collaterale non previsto potrebbe dunque essere una regressione dell’evoluzione delle relazioni sindacali.

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