Rivoluzione africana
Via i dazi per crescere

L’Africa fa notizia quasi solo in negativo. Eppure accadono vicende importanti che mirano a sottrarre il continente all’arretratezza e alla povertà. Ad esempio nei giorni scorsi si è tenuto a Kigali, capitale del Ruanda, un vertice fra 44 dei 55 Stati aderenti all’Unione africana durante il quale è stato siglato un accordo iniziale per la creazione del mercato unico continentale, privo di barriere tariffarie: l’obiettivo è eliminare i dazi dal 90% delle merci scambiate fra Paesi africani, che attualmente ammontano al 6% del valore delle merci. È una rivoluzione storica, come l’ha definita «La Stampa», l’unico grande media italiano a darne conto, in grado di cambiare i rapporti di forza nel perimetro del commercio globale, con ricadute anche su Europa e Cina, principali partner economici del continente

Si tratta di un tentativo che dovrà vincere problemi nodali per l’Africa, come la scarsità di infrastrutture e l’eccesso di burocrazia ai confini degli Stati. Lo scambio commerciale intercontinentale nel 2017 ammontava a 170 miliardi di dollari, pari al 15% del totale degli scambi; l’85% è invece diretto verso il Vecchio continente, l’Asia e l’America. Il coordinatore della Commissione economica africana dell’Onu, David Luke, ha pronunciato parole chiare: «Il colonialismo europeo ha creato un contesto nel quale gli Stati africani non potevano commerciare fra loro, istituendo una rotta di scambio obbligatoria verso l’Europa».

La stessa Commissione ha calcolato che nei prossimi anni con la liberalizzazione dei servizi e il mercato unico, il commercio interno aumenterà del 52%, avvicinandosi al 60% che contraddistingue Europa e Asia. Un caso emblematico è quello della Costa d’Avorio: primo produttore al mondo di cacao, grazie al nuovo trattato la materia prima potrà essere scambiata con uno Stato limitrofo senza prendere la via obbligata dell’Europa per poi magari essere ricomprata a un prezzo superiore. Le regole del commercio infatti sono bizzarre: il Kenya produce fiori che arrivano sul mercato della Nigeria passando da Rotterdam invece che direttamente dal Paese produttore. L’intesa di libero scambio più importante dopo la fondazione dell’Organizzazione mondiale del commercio mira pure a un altro obiettivo: cambiare la tipologia dei prodotti scambiati. Attualmente il 60% della merce esportata dall’Africa nel nostro continente è costituita da materie prime, il 70% delle importazioni invece sono prodotti manifatturieri. L’intesa di Kigali dovrebbe rafforzare l’industrializzazione africana così da esportare prodotti finiti e ridurre lo smercio di prodotti di bassa qualità importati in Africa da Europa e Cina.

L’accordo prevede anche l’introduzione di una moneta unica, l’Afros, e la nascita di una Schengen africana fra 30 Stati con l’istituzione di un passaporto comune. L’apertura del mercato dovrebbe garantire maggior crescita nel manifatturiero ma anche nella lavorazione dei prodotti agricoli, emancipando l’Africa dalle fluttuazioni dei prezzi delle materie prime e dagli aiuti internazionali. Un apparato commerciale solido e un processo di industrializzazione creeranno posti di lavoro, riducendo quindi l’emigrazione verso l’Europa. Un fenomeno che non può essere governato semplicemente per via securitaria: bisogna cambiare le regole del gioco per far sì che l’Africa possa finalmente beneficiare delle sue ricchezze, in termini di materie prime e umane. Sulla via di un new deal africano ora ci sono i singoli Stati, i cui Parlamenti dovranno approvare l’accordo di Kigali. Sarà il momento per verificare l’attenzione della politica al destino del continente. Destino, come il nome (Destiny) del bimbo nato poco prima che la mamma morisse, una donna nigeriana con un grave linfoma respinta dalla polizia francese al confine di Bardonecchia, come fosse un pacco.

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