Riforme e tasse
L’ottimismo di Renzi

Le parole pronunciate da Matteo Renzi a Rimini e a Pesaro segnano decisamente la ripresa dell’attività politica anche se, in realtà, non ci eravamo mai accorti di una sua vera sospensione, se non nei giorni intorno a Ferragosto.

Colpa dell’incessante chiacchiericcio che continuiamo a chiamare dibattito politico, certo, ma anche merito di un lavoro di governo e parlamentare che ha ormai ben pochi riguardi per le ferie estive; e questo è un elemento positivo di rispetto per le emergenze del Paese che segna una certa differenza con il passato, quando deputati e ministri si concedevano lunghissime vacanze e restava solo Pannella a protestare contro le istituzioni inattive per mesi. E va riconosciuto pure a Matteo Renzi stesso un attivistico incremento anche estivo della produzione di decisioni da parte del governo che lui presiede, non a caso assai più virtuoso dei predecessori in termini di approvazione dei decreti applicativi senza i quali le riforme sono puro flatus vocis.

Un merito che il premier ha rivendicato di fronte ai partecipanti al Meeting con i quali ha inaugurato una consuetudine di dialogo e di ascolto («Vengo tra amici»). Si capisce che Renzi ricordi a tutti i suoi oppositori, sia interni che esterni, la mole del lavoro fatto – è pur sempre un politico alla ricerca del consenso con i segmenti più significativi dell’associazionismo – ma anche riproponga i progetti per il futuro.

Qui è interessante notare che Renzi non arretra, nemmeno di fronte alle diffuse incertezze, nelle sue promesse di diminuzione delle tasse: via Imu e Tasi «per tutti» dal 2016, riduzione dal 31 al 24 per cento dell’Ires per le aziende e infine un intervento sull’Irpef a partire dal 2018. Toccherà poi a Pier Carlo Padoan trovare le risorse per queste promesse così significative ma è evidente che Renzi si impegna politicamente a mantenerle: potrebbero essere la sua fortuna ma anche, se disattese, l’inizio del suo declino, lui lo sa benissimo ma non pare, come al solito, averne paura.

D’altra parte, tutto l’argomentare di Renzi sulla riva adriatica è un invito all’ottimismo della volontà, al fare, alla necessità di sbloccare l’Italia dopo vent’anni di contrapposizione berlusconismo-antiberlusconismo (un argomento che non piace né agli azzurri né alla sinistra del suo partito). Renzi vuol essere il Blair italiano, quello che trascina la sinistra dagli ideologismi pansindacali al pragmatismo che realizza le cose, e recita la sua parte fino in fondo, costi quel che costi e nonostante le tante difficoltà che gli si parano di fronte, sia per effetto dei problemi reali, sia per le trappole disseminate sul cammino dai tanti nemici. A cominciare dai suoi compagni di partito: deve essere stato allora liberatorio per lui dire che la riforma elettorale dell’«Italicum» è una rivoluzione perché consente di governare senza il condizionamento delle minoranze.

Ma resta anche il fatto che al Senato la sua maggioranza zoppica e il governo stenta ad andare avanti, così che a Palazzo Madama potrebbero arenarsi le ambizioni più ardite del premier, a cominciare dall’abolizione del bicameralismo perfetto (vero blocco-motore del sistema Italia), dalla riduzione del ruolo della Camera Alta e dalla soluzione del pasticcio del rapporto Stato-Regioni.

Ce la farà il governo ad ottenere queste riforme? Dai discorsi di ieri non sono trapelate grandi aperture di dialogo con gli oppositori, e questo è molto «renziano», ma è proprio lì, sul terreno meno conosciuto e meno apprezzato dall’opinione pubblica, che si gioca l’avvenire di questo governo e, in definitiva, del suo giovane premier.

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