Ridiamo un’anima
al centro perduto

L’espressione «patrimonio culturale» non ci piace. Preferiamo di gran lunga parlare di eredità. Il patrimonio pretende il verbo avere, si concentra sul possesso, corteggia l’egoismo. L’eredità impone una responsabilità etica, significa ricevere qualcosa che non è tuo e che hai l’obbligo morale di trasmettere alle generazioni che verranno dopo di te. Dall’inchiesta de «L’Eco» sulla crisi del centro stanno emergendo spunti interessanti, in costante equilibrio tra praticità e bellezza, funzioni ed estetica.

Per cominciare, appare chiara la consapevolezza che la crisi è profonda e ha radici antiche. Per risolverla ci vuole altro che la movida - un «fuoco d’artificio», nelle parole dei nostri intervistati, perchè non lascia tracce e non getta semi. Serve assai piú di un provvedimento viabilistico, chiamatelo ztl o come vi pare. Al netto delle polemiche, che attirano l’attenzione ma abbassano il livello dello scontro, il tempo ci dimostrerà che sono palliativi o poco piú. La crisi è prima di tutto culturale, il centro di Bergamo bassa soffre di solitudine perché ha smarrito la sua identità. Se non facciamo in fretta a trovargliene un’altra, ci ritroveremo con un buco nero e al Sentierone accadrà quel che accaduto negli anni Novanta alle fabbriche dismesse e abbandonate. Il centro piacentiniano nasceva negli anni Venti del ’900 e incarnava il sentimento di un’epoca sfortunata, quella in cui l’Italia non voleva più essere Italietta e quindi, quando costruiva, era magniloquente, e perfino i cimiteri dovevano essere «monumentali». Se siamo tutti d’accordo che quel tempo è finito, allora vale la pena di ripensare anche il vestito urbanistico-architettonico con cui era stato messo in scena (benissimo, per altro). E senza timori reverenziali. Nessuna eredità, per tornare all’inizio del nostro ragionamento, li deve suscitare.

Quanti di noi hanno in casa il servizio di porcellana della nonna e non lo usano perchè hanno paura di romperlo? In fondo, la prima a non esserne contenta sarebbe proprio la nonna.

La parola rivoluzione non è una brutta parola: vuol dire semplicemente rompere gli equilibri esistenti e immaginare che se ne possano creare altri. A noi piace molto l’espressione «futuro recuperato». Per restituire vita alla città, laddove la città l’ha persa, non possiamo fare a meno del passato. Ma il passato va riestetizzato, cioé ha bisogno di una nuova estetica scritta con l’alfabeto dei giorni che stiamo vivendo.

Un’estetica contemporanea e anche «popolare». Dall’inchiesta de L’Eco esce forte l’idea - l’hanno ripetuta in molti, e molto diversi, da un artista bergamaschissimo come Trento Longaretti a un archistar internazionale come Stefano Boeri - l’idea che gli uffici devono lasciare spazio alle residenze. Meno impiegati e professionisti, più famiglie.

Esemplare il caso di Piazza Pontida, che negli ultimi cinque anni ha ritrovato una vitalità che sembrava perduta. Non a caso, quando sei sul Sentierone, ti senti come attirato da una calamita verso via XX Settembre, non certamente verso via Tasso, dove pure i negozi non mancano.

E che dire della nuova libreria di via Quarenghi, strada considerata off limits a causa dell’altissima densità di immigrati, eppure cerniera emblematica tra centro e periferia? Meravigliando gli stessi proprietari, che hanno avuto il coraggio di rischiare, il punto vendita sta diventando assai più di un negozio ed é già un luogo d’incontro.

Tutti esempi che dicono in fondo la stessa cosa. Se è il pensiero architettonico che concepisce la città, il parto e la crescita sono affare (e responsabilità) della gente che la abita. Il centro di Bergamo Bassa ha perso, negli ultimi vent’anni, il 20 per cento della popolazione. In fondo, basterebbero questi numeri per farci capire molte cose. Serve una politica abitativa degna di questo nome, serve una classe politica che abbia il cervello per pensarla e i muscoli per attuarla. Se lasciamo decidere al mercato, i residenti in centro non torneranno mai. Oppure accadrà come in Città Alta, dove il diritto di cittadinanza è regolato dal 730 e dal 740.

Un altro errore madornale, in agguato soprattutto a sinistra e dintorni, sarebbe quello di pensare che basti la parola «cultura» per garantirci il lieto fine. La cultura non è una bacchetta magica, tanto più che in Italia è così fragile da non riuscire nemmeno ad essere autosufficiente. Chi pensa di risolvere i problemi del centro attribuendo al centro una funzione solo culturale è fuori strada. Chiaro che il teatro Donizetti deve aprirsi di piú alla città, ma questa (bellissima) idea da sola non porterebbe da nessuna parte. Infine, ma dovrebbe stare all’inizio di ogni pensiero, l’inchiesta de L’Eco fa emergere una grande voglia di partecipazione. Il centro è malato, soffre di solitudine? Per quel che ci è sembrato in queste settimane, la città dimostra di sentire il problema e di volerlo assumere come responsabilità condivisa. Non delega la ricerca della cura al sindaco, inteso come entità astratta, «altra» rispetto ai cittadini. Non è questo un modo per dare forma plastica al concetto di cittadinanza?

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