Renzi, i due tempi
e l’ultimo treno

Il discorso del premier, che sabato al Teatro Sociale ha aperto la campagna nazionale per il «sì» al referendum costituzionale di ottobre, è stato un efficace intervento alla Renzi: pancia a terra in trincea e un profilo divulgativo molto pop per una materia delicata e tecnica. Il lancio della contesa con il cartello del «no», che va da Berlusconi a Magistratura democratica, è avvenuto in quel profondo Nord che nella Seconda Repubblica è stata terra perduta per il centrosinistra. Ma la Bergamasca, dopo la stagione d’oro del forzaleghismo, ha portato bene al leader del Pd sia alle Europee sia alle Amministrative.

Se si leggono però in controluce le parole di Renzi, l’impressione è che non abbia preso ancora le misure e che il registro non sia quello definitivo, oscillando così fra concetti seri e populismo istituzionale. Bisognerà attendere il voto di giugno a Milano e a Roma, perché è quello il primo spartiacque in vista dell’appuntamento in autunno. Un passaggio scivoloso che il Partito democratico affronta in condizioni difficili e infatti Renzi non ne ha fatto cenno: è il primo tempo della «partita della vita» che si giocherà sul referendum confermativo. Il capo del governo, nel ribadire che se perde va a casa, ha cercato di spersonalizzare la battaglia ributtando la palla nell’altra metà campo, ma ha convinto solo in parte.

Del resto un po’ tutti sono prigionieri della logica referendaria e Renzi sa che i suoi avversari hanno un vantaggio competitivo: riuniscono sì tutto e il contrario di tutto, ma la prospettiva di affondare il giovanotto fiorentino fa premio su qualsiasi divisione. Il «no» ha in sé il pilota automatico per portare gli elettori alle urne anche se il quorum non c’è, mentre Renzi sa che deve motivare non solo il suo popolo allargando così il perimetro del potenziale consenso: non è un caso che abbia trattato in guanti bianchi l’elettorato di destra e grillino. L’instancabile attivismo e l’energia riformista del leader dei democratici non oscurano la circostanza che la strada del governo sia in salita. Renzi ha spiegato le ragioni del «sì» su due livelli.

Il primo, quello più concettuale e che risponde ad un’urgenza obiettiva e sentita, riguarda la modernizzazione del Paese, il cambio di passo di una democrazia che deve essere messa nelle condizioni di poter decidere, senza per questo scambiare una necessità con una deriva autoritaria. In pratica - ma qui il ragionamento sconta una forzatura - una politica a questo punto capace di autoriformarsi si allineerebbe ad una società civile italiana rivelatasi quasi perfetta: una specie di anno zero di un Paese divenuto finalmente normale.

Il secondo livello è stato illustrato nello schema dell’utilità economica pur inserito nella traiettoria di una politica che, messa a dieta, deve ritrovare credibilità e sobrietà: con il nuovo Senato si riduce il numero dei parlamentari perché siamo il Parlamento più obeso del mondo, i consiglieri regionali avranno minori compensi. Insomma: tempi duri per i cacciatori di poltrone, cioè gli avversari delle riforme, e se avranno la meglio tornerà il tempo degli «inciucisti» (termine ricorrente nel discorso a Bergamo). In questo caso un pezzo di verità viene confezionato con un cedimento alla demagogia anti casta, il terreno di Grillo.

C’è una spiegazione a questa strategia che pure lascia perplessi: Renzi è consapevole che per vincere non può affidarsi alla fredda tecnica giuridica che non scalda i cuori, per quanto siano in arrivo 100 costituzionalisti per il «sì» che sorpasseranno i 56 del «no». Sa, in sostanza, che la scorciatoia, che peraltro gli è più congeniale, è quella di sfidare i populisti sulla loro matrice sociale, di badare al sodo e di semplificare, di rendere anche conveniente ciò che è indispensabile, cioè una riforma che non merita di essere bocciata.

Ecco dove sta il rischio: qualora l’«economia costituzionale» diventasse il messaggio prevalente, avremmo un passaggio storico non sorretto da motivazioni adeguate, quanto meno riduttive. Uno scarto fra grandezze differenti. Stiamo parlando di Costituzione, di un progetto di democrazia che intende funzionare meglio, destinata a sopravvivere alle fortune o sfortune dei vari leader in transito: appare inelegante misurare la bussola di una società, che peraltro dovrebbe unire e non dividere, con il metro contabile. Da qui a ottobre occorre lavorare sui contenuti per motivare il «sì», la questione vera che deve entrare nella testa degli italiani: se la riforma non passa adesso, dopo 30 anni che è in agenda, il treno non ripassa più.

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