Referendum lombardo
Le promesse sbagliate

Comincia molto male, all’insegna della disinformazione, la campagna per il referendum che tra due mesi chiamerà alle urne i lombardi. Non è infatti un’attenuante il contesto in cui Roberto Maroni ha parlato, alla festa leghista di Pontida. È vero che uno in casa propria ha il diritto di lasciarsi andare, in una serata di mezzo agosto, in maglietta verde, con slogan pur non aggiornato al nuovo corso salviniano, perché scrivere sul petto «prima il Nord» non è il massimo per gli elettori a sud della Padania, quelli da conquistare per battere Berlusconi.

Ma un governatore è sempre un governatore anche con i jeans, e lo si deve prendere sul serio anche quando racconta ai suoi cose che oggettivamente più che fake news sembrano bufale irrispettose per un popolo leghista che, in questi lunghi anni, già ha dovuto sopportare di tutto dai suoi vertici. E non parliamo di diamanti, ma del sogno federalista dopo quello secessionista e prima di quello sovranista. Contrordine compagni, si diceva una volta.

Maroni ha in sostanza sostenuto a Pontida che il referendum serve a garantire che i 54 miliardi di tasse lombarde restino tutte qui. Nella campagna elettorale del 2013 aveva promesso l’85%, ma visto che in 5 anni non è cambiato nulla, ora - via referendum - la promessa è 100%. In attesa dei miliardi, per il momento si cominciano comunque a spendere 40/50 milioni per pagare questo referendum, con il beneplacito dei 5 Stelle che hanno votato a favore in Consiglio regionale avendo ottenuto che si usi non la matita ma il tablet. Si sa che, per loro e per la Ditta Casaleggio, andare on line è progresso sicuro. Abbiamo per lo meno evitato la polemica sul complotto della Apple che fa affari con la politica vendendo terminali. E rinunciamo allora anche noi a fare populismo, indicando nel dettaglio quante cose utili si potrebbero fare in Lombardia risparmiando quella cifra.

Ma Maroni non si è fermato qui. Ha illustrato lo scenario del giorno dopo il voto: un viaggetto a Roma insieme al governatore del Veneto Zaia (altro referendum, ma molto meno costoso), per «far firmare» il decreto che sposta 54 miliardi a Palazzo Lombardia. Una semplice formalità, dopo il voto popolare.

Allora, cerchiamo di fare chiarezza. La cosa più importante è leggersi fin d’ora il quesito che i lombardi troveranno sulla scheda, un capolavoro di vaghezza.

Comincia con un «volete voi», e uno si aspetta una rivoluzione, ma poi chiede che «nel quadro dell’unità nazionale», la Regione «intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia». Quali? Non si sa. Manca solo un «per favore», altro che decreto immediato di Gentiloni per i 46 miliardi, e per l’ulteriore promessa del riconoscimento della Lombardia come Regione a statuto speciale, anzi il più speciale di tutti, quello siciliano. Per un obiettivo del genere, occorre una legge costituzionale, e l’aria che tira è se mai che si eliminino le Regioni speciali esistenti, non che se ne aggiunga un’altra, addirittura la più ricca. Se poi davvero si volesse sottoporre a referendum la destinazione delle tasse dei lombardi, questo sarebbe semplicemente vietato dalla Costituzione della Repubblica, rimasta uguale anche grazie al voto per il No della Lega il 4 dicembre scorso. Come si fa a raccontare queste favole sia pur tra i tavoli, le birre e le salamelle, a gente che vuol trascorrere una serata di relax, ascoltando dalla politica cose serie? Ammesso e non concesso che questa idea di tenere in casa le imposte sia proponibile nell’interesse dei lombardi, le cui imprese hanno un mercato che va al di là del sacro Po. Chiedere in giro, prima di lasciare il Sud al suo destino. Speculare dunque sulla paroletta magica «autonomia», è fuorviante e in prospettiva dannoso per tutti. Se rendiamo «speciali» tutte le Regioni, diventerà tutta «ordinaria» l’articolazione dello Stato e saremo da capo.

La chicca finale, però, Maroni l’ha riservata a quei sindaci e presidenti del Pd a favore del Sì referendario, dopo che in Consiglio regionale il loro partito si è schierato duramente contro. L’idea alla base di questa scelta è che tutti debbono essere a favore dell’autonomia e il Pd non può passare per biecamente centralista lasciando a Maroni il primato. Anche qui, un po’ di confusione, visto che la riforma costituzionale di Renzi caduta il 4 dicembre, rimetteva in ordine i rapporti tra Stato e Regioni (era la parte migliore di quel testo).

Maroni ha beffardamente commentato che apprezza il «ripensamento» del Pd sul referendum, e questa sola posizione dovrebbe scoraggiare il principale partito lombardo di opposizione dall’idea di consentire a Maroni e Zaia di portare a Roma un risultato addirittura plebiscitario, aprendo trionfalmente la campagna per le regionali. Forse, almeno il candidato governatore, quando ci sarà, potrà dire una parola chiarificatrice. Se c’è da ridiscutere un migliore e più equilibrato rapporto tra Roma e la Lombardia, lo strumento c’è già, ed è un sano confronto previsto dalle norme vigenti. Il resto è davvero propaganda, e di cattiva lega.

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